A contribuire ai diciassette arresti di giovedì scorso non sono state solo le conferme ricevute da parte dei commercianti della zona, che hanno denunciato i propri aguzzini. Fondamentale anche l'apporto di cinque collaboratori di giustizia. Con dettagli, nomi e risoluzioni di fatti rimasti misteriosi per anni
Mafia, i racconti dei pentiti di Borgo Vecchio «Lui è uno vicino a noi, fa parte del gruppo»
Nel blitz che giovedì notte ha decapitato il clan di Borgo Vecchio, portando all’arresto di diciassette presunti boss e affiliati a Cosa nostra, a svolgere un ruolo chiave sono stati soprattutto i collaboratori di giustizia: cinque pentiti che, in passato, di quell’organigramma sono stati a loro volta un tassello importante. Il primo è Francesco Chiarello, arrestato nel 2011 con l’operazione Pedro, che ha iniziato la sua collaborazione con la giustizia ad aprile 2015. Una decisione spinta dalla voglia di cambiare vita per via del senso di colpa provato per l’omicidio di Davide Romano, ritrovato nel 2011 incaprettato dentro a una Fiat Uno bianca in via Titone, e di cui lui si assume parte della responsabilità. Ritenuto «intrinsecamente attendibile» dagli inquirenti, prima di puntare il dito contro i suoi ex compagni, ha lavato i propri panni sporchi autoaccusandosi di numerosi reati gravi.
Atteggiamento che, al di là delle conferme ottenute, ha convinto subito della sua genuinità. E lui era uno degli uomini d’onore di Borgo Vecchio, e nemmeno uno dei tanti. Il suo era un compito preciso, di rilievo: era il responsabile del libro mastro delle estorsioni, il «diario» della mafia, così lo definisce Chiarello. Lì ci sono, nero su bianco, i nomi dei commercianti del quartiere e della zona vicina al porto con la relativa somma da versare, oltre ai nomi dei detenuti e delle famiglie da aiutare economicamente con quegli stessi soldi raccolti col racket del pizzo. Ed è sempre lui che adesso, seduto dietro la scrivania dei magistrati, ricostruisce con molti dettagli e altrettanta precisione l’organigramma della famiglia mafiosa di Borgo Vecchio, che sembra aver definitivamente rinnegato, e di altre importanti zone della città.
Ma c’è anche Danilo Gravagna, arrestato nel 2013 e pentito dal marzo 2015. Il suo però è un personaggio diverso, perché duplice, in un certo senso. È infatti un ex picciotto che gravita nel contesto del porto di Palermo, ma è anche un imprenditore: titolare di una società di autotrasporti. Anche per lui la collaborazione con gli inquirenti inizia con un mea culpa a sorpresa, che lo collega a reati per i quali non era neppure indagato e che convince i magistrati della sua buona fede. Poi le dichiarazioni: dai segreti del mandamento di Porta Nuova alle estorsioni di Borgo Vecchio.
Poi c’è lui, Giuseppe Tantillo, arrestato a dicembre 2015 con un’altra importante operazione antimafia, Panta Rei. Inizia a collaborare a maggio 2016: a convincere di lui sono la «spontaneità» emersa dalle dichiarazioni, ricche di particolari e, in alcuni casi, relative a fatti recenti e inediti. Da lui piovono conferme rispetto agli ex sodali coinvolti nella stessa inchiesta che lo ha messo dietro le sbarre, ma anche su quelli colpiti giovedì scorso: «È uno vicino a noi…fa parte del nostro gruppo», dice di Fabio Bonanno, descritto come uno degli uomini principali della famiglia di Borgo Vecchio. Non manca di fare luce anche sui responsabili di alcuni omicidi del passato rimasti irrisolti. Ma sotto i riflettori non può che esserci soprattutto egli stesso: reggente storico della famiglia di Borgo Vecchio dal 2012 al 2015 insieme al fratello Domenico, custodisce il famoso libro mastro ritrovato, proprio grazie a lui, nel suo covo. A consegnarglielo è Giuseppe Di Giacomo in persona, boss di Palermo Centro freddato nel 2014 a due passi dalla Zisa. Le numerose conferme lo rendono attendibile per gli inquirenti, che non rintracciano nella sua collaborazione secondi fini legati al rancore o a interessi personali.
Ed ecco un altro nome di spicco, quello di Giovanni Vitale, il Panda, arrestato a gennaio 2017 dopo mesi di latitanza. A incidere sulla sua decisione di collaborare è soprattutto il rigore del sistema carcerario e la ferma volontà, così dice lui ai magistrati, di recidere per sempre i rapporti con Cosa nostra. E i suoi racconti partono dal principio, dal suo inserimento nella famiglia di Resuttana, per passare poi agli appartenenti ai territori mafiosi di Villagrazia e Santa Maria di Gesù. Andando più indietro nel tempo, infine, salta fuori anche il nome di Andrea Bonaccorso: collaboratore dal gennaio 2008, le sue prime rivelazioni riguardano il suo ruolo all’interno della famiglia mafiosa di riferimento, quella di Brancaccio. Tra gli incarichi, il più delicato è quello relativo alla latitanza, partita a giugno 2006, di Andrea Adamo, arrestato l’anno dopo. Non si limita, però, a coprirne le tracce. Ai magistrati rivela di averlo anche aiutato a commettere alcuni delitti su incarico dei Lo Piccolo, con i quali i suoi rapporti sono piuttosto stretti.