Mafia dei Nebrodi, chiesto l’ergastolo per Montagno «Intercettazioni inquietanti dopo agguato a Gullotti»

Ergastolo per il boss di Bronte Francesco Ciccio Montagno Bozzone e 24 anni per il fratello Mario. Sono le condanne che ha chiesto il pubblico ministero Andrea Ursino per l’omicidio di Giuseppe Gullotti. Il pastore etneo vittima di un agguato nel febbraio 2002 e morto quattro anni dopo a causa delle ferite riportate durante l’imboscata. Il processo di primo grado, che si svolge in corte d’Assise, ha avuto una storia lunga e travagliata. Iniziata con le condanne nel primo procedimento e con l’annullamento in Appello per l’inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali, proseguita con il ricorso in Cassazione e con la morte della vittima che, da un lato, ha trasformato l’accusa in omicidio e, dall’altro, ha dato il via a un nuovo processo. Montagno, collegato in video conferenza dal carcere dell’Aquila, dov’è sottoposto al regime del carcere duro, ha seguito i lavori d’aula in silenzio. L’unico a prendere la parola, per la requisitoria, è stato il magistrato che, prima di arrivare alle richieste di condanna, ha ripercorso parte della storia della mafia dei Nebrodi nella città del pistacchio. 

«Negli anni ’90 si è formata un clan collegato ai Santapaola di Catania – racconta il pm alla corte -, dentro c’erano sia Salvatore Catania che Ciccio Montagno. Quest’ultimo però sgomitava per avere spazio», tanto da spostarsi con il gruppo dei Carcagnusi di Santo Mazzei. Un cambio di casacca segnato da sangue e tentati omicidi. A rimanere vittima di due agguati è lo stesso Montagno. Il 18 giugno del 2000 i killer gli sparano in bocca ma non riescono ad ucciderlo e il proiettile gli esce dalla guancia, il 15 novembre del 2001 invece lo colpiscono alla gambe mentre si trovava in piazza Spedalieri, nel centro della cittadina etnea. In manette per questo fatto finiscono Claudio Reale – poi scampato a due agguati – Antonio Triscari e Daniele Salvà Gagliolo. Meno di un mese dopo tocca all’autista di Montagno. Sergio Gardani viene ucciso la sera del 7 dicembre mentre parcheggiava la sua auto. «Una escalation di violenza», la definisce l’accusa, che culmina con l’imboscata a Gullotti. «La vittima ha fornito alcune dichiarazioni – spiega Ursino -. Non ci ha detto chi erano gli autori perché tutti avevano i volti coperti dai cappucci». Gullotti però racconta anche quello che potrebbe essere il movente. «Claudio Reale, figliastro proprio di Gullotti, faceva parte del commando che provò a uccidere Montagno. Ecco perché questa vicenda è stata un reazione a quello che era accaduto a Bronte», continua il magistrato.

Decisive per la condanna potrebbero essere proprio le intercettazioni. In aula Ursino legge gli estratti di tre conversazioni che, a suo avviso, servirebbero a delineare i contorni della vicenda. Le cimici registrano le chiacchierate dentro all’automobile di Giuseppe Pruiti. «Quest’ultimo ai suoi interlocutori spiega anche che l’agguato era stato rinviato più volte perché la vittima si accompagnava spesso con il figlio di Turi Catania, boss che si contrapponeva a Montagno». Nelle conversazioni emergerebbe anche un dettaglio ulteriore dell’imboscata: «Gullotti si stava recando a Bronte, proveniente da Maniace – spiega Ursino – Pruiti dice chiaramente che era andato a trovare Franco Conti Taguli e Mario Montagno spiegava che era quest’ultimo a seguire gli spostamenti appostato su una collina grazie a un cannocchiale». Un particolare non di secondo piano, come spiega lo stesso magistrato a conclusione della requisitoria: «A lui chiedo di concedere le attenuanti perché pur avendo avuto un ruolo indispensabile nella vicenda non ha fatto parte del commando che ha sparato».

Gullotti, che quel giorno non era solo in macchina, era atteso dai killer in contrada Cantera, subito dopo un ponte che oltrepassa il fiume Simeto. Verso di lui sparano con dei fucili a pallettoni ma non riescono a portare a termine il compito. «Ci sono conversazioni inquietanti e, per l’accusa, decisive, per arrivare a una condanna degli imputati. C’è la chiara appartenenza al clan degli imputati e per loro parlano anche le sentenze passate in giudicato». Adesso la parola passerà alle difese, ultimo atto prima delle repliche e della lettura della sentenza, che potrebbe arrivare entro fine anno. 


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