Dalle lettere alla visita dopo 17 anni. Parla la compagna del boss Emmanuello: «È innocente, pronta a far riaprire il processo»

Dalle lettere alle visite. È il percorso della storia tra Davide Emmanuello, detenuto al 41 bis perché ritenuto un boss della cosca mafiosa di Gela, e Clare Holme, istruttrice di equitazione italo-britannica. Lo ha deciso ieri la Cassazione, che ha dato all’ergastolano la possibilità di avere un colloquio visivo con la sua compagna, andando contro il divieto imposto dal direttore del carcere di Sassari. Secondo i giudici, infatti, Emmanuello ha diritto all’affettività con la sua fidanzata. In una storia che dura quasi da vent’anni, come racconta la stessa Holme a MeridioNews.

Come vi siete conosciuti lei e Davide Emmanuello?
«È successo nel 2008, con una lettera. Tutto è iniziato perché lavoro con i cavalli e sono sempre stata attiva nel sociale. Quell’anno, sono stata contattata da un’associazione per creare una fattoria didattica con due asini in un carcere femminile, un progetto che consentisse alle detenute di fare un lavoro di relazione, ma anche un’attività all’aria aperta. Dopo questa consulenza iniziale, mi hanno coinvolta in un un’altra iniziativa di sensibilizzazione sull’ergastolo ostativo, durante la quale abbiamo raccolto i ricorsi di tantissimi ergastolani italiani, che abbiamo portato a Bruxelles. Mi hanno dato una lista di persone da contattare e il nome di Davide non c’era, ma in quel momento gli avevano tolto il 41 bis per qualche mese ed era stato trasferito a Voghera. Lì, uno dei suoi compagni di detenzione gli consigliò di partecipare a questa iniziativa e gli diede il mio indirizzo. Così sono iniziate le prime lettere, scrivendoci di diritti delle persone detenute. Poi, scambio dopo scambio, abbiamo cominciato a raccontarci anche le nostre vite e sono passati 17 anni. Anzi, fra un po’, 18».

Come si è arrivati all’amore in questo rapporto epistolare?
«In questo mondo, spesso, le relazioni sono molto superficiali. Per dirla con il filosofo Bauman, siamo una società liquida. In questo contesto, io e lui siamo diventati un’ancora l’uno per l’altro. Io affrontavo tutte le mie problematiche fuori, dal lavoro alle mie due figlie e l’occupazione nel settore sociale; lui aveva le sue problematiche in carcere. Abbiamo cominciato a raccontarci anche del nostro passato, di quando eravamo bambini. Quando l’ho conosciuto, lui aveva già trascorso 15 anni al 41 bis e, ogni tanto, mi scriveva che gli avevano riapplicato la stessa misura restrittiva di cui si è sempre lamentato, anche perché lui si è sempre dichiarato innocente. Ovviamente, all’inizio, mi limitavo a leggere questi suoi sfoghi, ma non entravo nel merito della sua faccenda giudiziaria».

C’è voluto tempo, quindi…
«Molto, anche perché Davide è una persona estremamente intelligente. In questi anni ha iniziato gli studi universitari in Filosofia e sta passando tutti gli esami con 30 di votazione. Per tanti anni non abbiamo neanche potuto incontrarci; Davide lo ha richiesto più volte, ma le sue istanze sono state sempre rigettate, fino a quest’ultima decisione della Cassazione. In realtà, ci siamo visti il 26 maggio perché, nell’attesa della sentenza, abbia riprovato a fare richiesta ed è stata accettata».

Com’è stato vedervi per la prima volta di presenza dopo tanti anni?
«È stato pazzesco… Eravamo separati da un vetro, ma dopo due minuti lo abbiamo dimenticato e abbiamo chiacchierato come facciamo sempre per lettera. Finalmente abbiamo avuto la possibilità di dirci in faccia che ci vogliamo bene e abbiamo parlato tanto di noi. Finora ci eravamo visti solo in foto, ma Davide è proprio come l’ho sempre immaginato e lui ha detto la stessa cosa di me. Adesso che ci siamo visti, però, mi manca ancora di più».

Come sono stati questi anni con lui al 41 bis?
«Davide vive questa condizione da 33 anni, dal 1993. E per questo ha iniziato a soffrire di agorafobia e claustrofobia, come hanno riscontrato anche i medici del carcere. Ha anche dei problemi fisici, come del resto tutti quelli che subiscono l’ergastolo ostativo per tempi così prolungati. Non a caso il 41 bis, nelle intenzioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è nato come misura eccezionale, da applicare per un breve periodo, per staccare una persona da un determinato ambiente. Poi, però, diventa una tortura, perché siamo animali sociali e abbiamo bisogno di relazionarci con gli altri. L’isolamento totale dal mondo annienta chiunque, e non credo che questo trattamento sia degno di un Paese civile e democratico. Lo dice anche la Costituzione, no? Per l’articolo 27 le pene devono avere delle finalità riabilitative, che qui non esistono».

Lei ha dichiarato di voler dimostrare l’innocenza di Emmanuello. Come pensa di fare?
«Durante le nostre conversazioni per lettera, ho raccontato a Davide che mio padre è un giornalista d’inchiesta e lui mi ha chiesto aiuto per dimostrare che non è quello descritto nelle narrazioni giudiziarie. Abbiamo recuperato la documentazione e ho cominciato a studiare il suo caso, scoprendo che il primo processo, cioè quello che ha fatto diventare i fratelli Emmanuello dei mostri, è basato solo ed esclusivamente sulle dichiarazioni dei pentiti. In pratica, con loro si è iniziato ad applicare il metodo dell’antiterrorismo anche alla mafia».

Non ha trovato proprio altro nei documenti?
«Beh, no. È vero che adesso io sono la sua compagna e potrei essere di parte, ma basta leggere le carte processuali per rendersi conto che tutto l’impianto accusatorio è basato solo sulle dichiarazioni dei pentiti. I fratelli non sono mai stati trovati sui luoghi dei delitti e non sono mai stati fermati con delle armi, Quelle le hanno trovate ai sodali, gli autori materiali degli omicidi, che sono tutti pentiti. Gli Emmanuello, inoltre, non sono cresciuti a Gela, ma a Genova, ed erano rientrati da poco in Sicilia. Come sarebbero potuti diventare dei boss in così poco tempo?».

Le accuse dei collaboratori di giustizia, però, vengono riscontrate da investigatori e magistrati
«A occuparsi dell’impianto accusatorio fu l’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, che è recentemente balzato agli onori delle cronache per la sua poca trasparenza. Gli Emmanuello sono stati anche il cavallo di battaglia della lotta alla mafia dell’ex presidente della Regione Rosario Crocetta, coinvolto nel cosiddetto sistema Montante. Ma non solo, perché la prima operazione Medusa condotta contro gli Emmanuello a Genova era guidata da Michele Riccio, in Sicilia per gestire il collaboratore di giustizia Luigi Ilardo ma, nel libro che ha da poco pubblicato, scrive che formalmente doveva indagare sulla parte siciliana degli Emmanuello. Nella relazione Grande Oriente il nome di Davide spunta addirittura sette volte, ma lui in quel periodo era già al 41 bis da anni, quindi vorrei capire come avesse questi contatti con l’esterno, tali da poter continuare a gestire la cosca mafiosa».

Quali sono le sue speranze per il futuro?
«Mi auguro che si apra una finestra di dialogo istituzionale, anche perché abbiamo in mano tutto il necessario per fare avviare la revisione del primo processo. Vorrei, dunque, che qualcuno a livello istituzionale prendesse seriamente in mano questa situazione e si rendesse conto che la posizione dei tre fratelli Emmanuello, nonché la morte di Daniele, dovrebbero essere rivalutate. Il nostro sogno è semplicemente quello di poter stare insieme: lui potrebbe aiutarmi nel mio lavoro, cosa che si rammarica sempre di non poter fare, quando mi lamento che sono stanca o che ho qualche problema. Insomma, vogliamo solo una vita normale».


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