Il figlio dello storico capomafia di Paternò ha stupito tutti durante il processo per l'omicidio di Salvatore Leanza. Collegato in video conferenza ha spiegato di avere parlato offuscato dall'utilizzo di sostanze stupefacenti
Mafia, clamorosa marcia indietro del pentito Assinnata Ritrattate dichiarazioni alla procura. «Ero poco lucido»
«Ritratto tutto, la mia mente era offuscata dall’utilizzo di sostanze stupefacenti». Ha davvero del clamoroso la marcia indietro di Domenico Assinnata junior. Rampollo della famiglia Assinnata, figlio di Turi e nipote di Mimmo, capi indiscussi dell’omonimo clan operante nel territorio paternese federati alla famiglia Santapaola-Ercolano di Catania. L’uomo, 29 anni, dallo scorso anno aveva iniziato a parlare con i magistrati della procura etnea diventando a tutti gli effetti un pentito di mafia. E mettendosi alle spalle le accuse di essere diventato l’ultimo erede della dinastia mafiosa paternese.
La comunicazione di volere fare un passo indietro è arrivata ieri, durante il processo per l’omicidio di Salvatore Leanza. Chiamato come testimone in udienza, Assinnata junior non era presente in aula ma collegato in videoconferenza da un luogo riservato. Al microfono le parole che hanno sanciato la sua ultima volontà. La notizia è rimbalzata rapidamente nei corridoi del palazzo di giustizia e già oggi, durante il processo per il blitz Assalto, l’accusa ha riformulato la richiesta di condanna per l’ormai ex pentito. Da sei anni e otto mesi a venti anni di carcere, il tutto perché venute meno le attenuanti della collaborazione con la giustizia. Assinnata ha anche cambiato avvocato, scegliendo il legale Salvo Milicia. Lo stesso, per il suo nuovo assistito, ha chiesto una perizia psichiatrica, non accolta dal giudice.
Domenico Assinata era diventato celebre, con tanto di intervista durante una puntata della trasmissione Le Iene, grazie al doppio inchino di altrettanti cerei, con tanto di bacio da parte di un portatore, in occasione della festa di Santa Barbara. Un momento, secondo la questura, che fu indice di «una chiara manifestazione della forza intimidatrice tipica del potere mafioso» con tanto di sottofondo musicale sulle note della pellicola del Padrino. Per quei fatti la questura sottopose a maggiori controlli, per l’anno successivo, i percorsi delle varrette durante la partecipazione alla festa religiosa.