«Violenza e minacce» a imprenditori, politici e istituzioni. Come Cosa nostra, 'ndrangheta e camorra, ma senza farne parte. È quanto emerge dagli sviluppi della maxi-inchiesta di Roma che coinvolge anche il business dei migranti etneo. Nel mirino i rapporti tra chi cura i pasti nel centro d'accoglienza etneo e chi ha assegnato l'appalto
Mafia Capitale, sistema Odevaine al Cara Mineo «C’ho assunti figli dei dipendenti del ministero»
È stata ribattezzata Mafia Capitale. Anche se con le mafie tradizionali non ha niente a che vedere. Ma ne condivide l’«esercizio costante della violenza e della minaccia» nei confronti di imprenditori, politica e pubbliche amministrazioni. È forse questo uno dei punti più importanti dell’ordinanza della giudice romana Flavia Costantini, basata sulla «crescente consapevolezza dell’espansione delle mafie in diverse zone dell’Italia settentrionale, tradizionalmente ritenute immuni da questo fenomeno criminale, per lungo tempo considerato espressione di una cultura meridionale». Ed è in questo contesto, secondo i magistrati, che si sono mossi tra gli altri Luca Odevaine, gli imprenditori del gruppo La Cascina, i politici e i funzionari pubblici coinvolti nel bando per la gestione del Cara di Mineo, nel Catanese. Protagonista indiscusso del business dei migranti sarebbe proprio Odevaine, un «facilitatore dei rapporti con la pubblica amministrazione», senza alcun «principio di fedeltà e di buona amministrazione». Una persona che «non prova alcun senso di disagio» nell’anteporre «l’interesse personale e quello degli imprenditori che lo corrompono alle esigenze umanitarie». Le stesse che si è trovato a gestire come componente del Tavolo di Coordinamento Nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale e delle tre commissioni di gara per l’aggiudicazione dei servizi di gestione del centro d’accoglienza etneo. In cambio di diecimila euro al mese, poi diventati 20mila, da parte degli imprenditori de La Cascina.
«Sinceramente sulla cifra da chiedergli c’ho qualche, cioè non saprei, ti dico la verità, nel senso che su Mineo devono alzare la quota», dice Odevaine al telefono, non sapendo di essere intercettato. Il tariffario della sua fedeltà sarebbe stato fissato in base alle presenze di migranti stranieri al Cara. «Cento persone facciamo un euro a perso … non lo so, per dire, hai capito?». Diecimila euro al mese quando al centro si trovavano duemila persone. Ventimila quando gli stranieri raddoppiano e, con essi, i guadagni di chi gestisce il centro. «Come … diciamo così … contributo … anche perché qui c’ho … assunta qualche persona … figli de … de dipendenti del ministero …». I soldi, secondo quanto ricostruito dalla giudice Costantini, sarebbero arrivati a Odevaine tramite «ricezione diretta e impiego delle fondazioni e delle società a lui riferibili». I contanti venivano poi versati su un conto, ma a piccole dosi. Perché con «più di cinquemila euro per ogni versamento ti segnalano subito all’antiriciclaggio». Soldi che sarebbero poi finiti in Venezuela, dove Odevaine «ha interessi e si è recato spesso». Motivo per cui resterà in carcere, altrimenti «si darebbe immediatamente alla fuga», chiarisce la giudice. A finire dietro le sbarre anche Francesco Ferrara, vicepresidente de La Cascina, mentre sono stati disposti gli arresti domiciliari per l’amministratore delegato Domenico Cammisa e i componenti del cda Salvatore Menolascina – con precedenti per furto nell’87 – e Carmelo Parabita.
La Cascina è una cooperativa che si occupa soprattutto di ristorazione nelle mense aziendali e scolastiche e, dal 2012, anche nel settore sanitario e dell’immigrazione. Coinvolgerli nel Cara di Mineo sarebbe stata un’idea di Odevaine, come lui stesso racconta. Portata avanti con l’incontro organizzato tra Giuseppe Castiglione, allora a capo della Provincia di Catania, e «Francesco», probabilmente riferito a Ferrara de La Cascina. «Io questa volta vorrei quantomeno non regalare le cose insomma … almeno io da questa roba qua … in Provincia e quant’altro almeno ce vorrei guadagnà uno stipendio pure pe me», dice Odevaine. Da qui l’accordo sui diecimila euro poi diventati ventimila. Ma da La Cascina i pagamenti non sarebbero arrivati in modo puntuale. «Non me pagano, non pagano non so più che cazzo fare – si sfoga Odevaine – Non sanno come darmeli, non accettano nessuna soluzione perché sono paranoici, c’hanno paura di tutto perché non vogliono neanche lontanamente possa risulta qualche collegamento tra me e loro». Così il funzionario passa alla contromossa. Ricattando i vertici de La Cascina di «rallentare l’evasione dei pagamenti arretrati, ammontanti a circa 40 milioni di euro, vantati dal Consorzio Calatino terra di accoglienza per la gestione dei servizi di assistenza degli immigrati nel Centro di Mineo». Attraverso la vicinanza vantata con Giovanni Ferrera, a capo del consorzio, che avrebbe poi dovuto pagare il dovuto a La Cascina.
Ricondotti alla ragione gli imprenditori, Odevaine spiegava i piani – vecchi e nuovi – per ricevere i pagamenti. In passato, riporta la giudice, «La Cascina aveva fraudolentemente gonfiato gli stipendi di circa quindici dipendenti per creare, tramite la restituzione in denaro contante, i fondi da utilizzare per pagare le tangenti». Un sistema poi perfezionato con «un contratto per appaltare dei non meglio definiti lavori tra le due cooperative (La Cascina e la coop di Odevaine Il Percorso) e quindi veicolare facilmente, e in un modo formalmente corretto, le tangenti». Obiettivo finale era formare un’associazione temporanea di imprese tra le due realtà. Un flusso di denaro accertato dagli inquirenti, insieme agli investimenti in Venezuela di Odevaine. Considerati sospetti anche senza lente di ingrandimento, secondo quanto riassunto da un altro dei vertici dell’organizzazione: «No, scusa, ma se Odevaine c’ha tutta sta roba … scusa perché se tu sei stipendiato dal Comune e pigli tremila euro al mese come fai ad averci un impero in Venezuela? … Scusa ma c’ha mezzo Venezuela! Come se l’è fatto? Col risparmio dello stipendio?».