L'investitura di Benedetto Zucchero, secondo gli investigatori a capo del Gruppo della stazione, sarebbe avvenuta in nome della tradizione. Pizzo, rapine e intimidazioni sarebbero dovuti rimanere in famiglia. Le estorsioni riguardavano, a tappeto, un'ampia area del centro storico. Tra le vittime, anche una nota enoteca
Mafia, azzerati i nuovi vertici del clan Zucchero «Per mantenere l’amicizia prepara 60mila euro»
Pizzo, rapine e intimidazioni. Sono i metodi tradizionali di Cosa nostra, gli stessi che prediligeva l’anziano boss Giuseppe Pippo Zucchero, quelli che venivano portati avanti dalle nuove leve del suo clan ed emersi nell’indagine Capolinea. Il gruppo, riconducibile alla famiglia mafiosa dei Santapaola, nonostante i duri colpi inflitti dalla magistratura negli anni passati, continuava a spadroneggiare nella sua storica roccaforte che, dalla stazione ferroviaria di Catania, si estende fino a viale Libertà e prosegue nel perimetro di strade che conducono al corso Sicilia. Un reticolo di vie fatto di piccole attività commerciali tra bar, enoteche e locali notturni. Al vertice del nuovo organigramma della cosca, secondo gli inquirenti, ci sarebbe stato Benedetto Zucchero. Un’investitura nel nome della tradizione familiare e dei vincoli di sangue. Dopo il fratello Giuseppe detto Pippo – arrestato nell’operazione Libertà del 2011 -, si sono poi susseguiti con ruoli di primo piano il nipote Benny e il genero Cristoforo Romano. Quest’ultimo, già detenuto dopo l’arrestato nel blitz Reset e condannato in primo grado a 20 anni, è stato colpito da una nuova ordinanza di custodia cautelare.
Ad affiancare Benedetto Zucchero nel suo ruolo di nuovo vertice del clan, ci sarebbero stati due suoi fidati luogotenenti: Francesco Condorelli e Francesco Pietro Ferrari. In un’attività di disbrigo pratiche auto, riconducibile a quest’ultimo, sarebbero stati preparati alcuni bigliettini con i quali veniva chiesto il pizzo. In uno di questi si legge: «Ciao, ti faccio sapere che siamo amici e se vuoi mantenere questa amicizia sistema 60mila ci facciamo sentire noi entro due giorni». Un pizzo a tappeto in cui sarebbero stati coinvolti anche una nota enoteca e il proprietario di alcune giostre. I versamenti al clan in questi casi erano rispettivamente di 200 e 500 euro. In prossimità delle festività natalizie il clan si concentrava anche su banchetti e regali. Emergono così alcuni episodi di ricevimenti mai pagati ma anche ceste natalizie, ordinate dal carcere per essere vendute o per rendere omaggio a boss amici. Come quelli del quartiere del centro storico della Civita. Il particolare era già emerso nelle carte dell’inchiesta Reset. In quell’occasione un commerciante sarebbe stato costretto a donare gli ambiti regali al gruppo mafioso della stazione addirittura per 12 anni, dal 2000 al 2012, durante ogni festività.
Il vero canale economico con cui era stato riorganizzato il clan erano però le rapine. Gli uomini della guardia di finanza hanno investigato su ben 60 episodi. Di cui nove ricostruiti nei minimi dettagli, anche grazie alla collaborazione delle vittime. Gli obiettivi erano sempre camion e furgoni di autotrasportatori e spedizionieri che venivano assaltati da almeno due malviventi. Gli autisti, dopo essere stati bloccati e incappucciati venivano tenuti sotto sequestro per il tempo che occorreva a svuotare i mezzi. A gestire i proventi alla fine sarebbe stato Benedetto Zucchero. Soldi che in parte servivano al sostentamento delle famiglie dei detenuti. I colpi non si limitavano al territorio della città ma si sono estesi anche in periferia, nei territori compresi tra Misterbianco e San Pietro Clarenza. Per metterli a segno c’era una vera e propria squadra addetta di esperti composta da Francesco Condorelli, Salvatore Maugeri, Massimiliano Longhitano, Angelo Claudio Parisi e Andrea Antonio D’Arrigo. «Alcuni di loro – spiega il comandante della guardia di finanza Roberto Manna -, sono stati capaci di farne quasi trenta in un mese». Un vero e proprio lavoro portato avanti nel nome della famiglia Zucchero.
L’attuale reggenza si sarebbe occupata anche della gestione dei parcheggiatori abusivi che affollano la zona. «Tutto quello che c’è in quel territorio – svela la magistrata Assunta Musella – doveva passare sotto il controllo del clan. Serviva anche per dare un segnale di controllo e presenza sul territorio». L’area d’interesse veniva anche condivisa con altre cosche o gruppi riconducibili e appartenenti in maniera diretta alla famiglia mafiosa dei Santapaola. Il riferimento è al clan Mazzei, pienamente inserito lungo il viale Africa, e al gruppo della Civita, capeggiato in passato da Carmelo Puglisi e Orazio Magrì.