Mafia, a Roma presenti tutti i clan siciliani «La capitale come Catania negli anni ’70»

Latina, Frosinone, Roma. I rapporti semestrali della Direzione investigativa antimafia parlano chiaro: sono le tre città laziali in cui la mafia ha più interessi. «La presenza dei clan siciliani è capillare», conferma Antonio Turri, presidente di Libera Lazio ed ex commissario di Polizia alla questura di Latina. Una vita di lotta alla criminalità organizzata per professione e 16 anni di antimafia per vocazione, dalla fondazione dell’associazione a oggi. «Il problema è che Roma è stata fino a oggi come Catania negli anni ’70 – dice – in cui l’esistenza della mafia era continuamente negata: adesso che è penetrata a fondo, anche grazie alla permeabilità della politica, ne piangiamo le conseguenze». Che pesano: a Roma e provincia si spara nelle strade. «Nell’ultimo anno, alla mafia possono essere ricondotti tra i 27 e i 28 omicidi», spiega Turri.

Come va letto il sostanzioso aumento di omicidi di quest’ultimo anno? Chi c’è dietro? Le relazioni della Dia dicono che la geografia criminale siciliana è presente per intero, in modo equilibrato.
«Palermo, Trapani, Gela e Catania: le famiglie mafiose delle varie città sono tutte rappresentate. Alcune cosche, però, sono silenti. Reinvestono denaro e hanno nel Lazio i loro punti di riferimento, ma non si fanno vedere, soprattutto all’inizio del loro insediamento. Andando avanti col tempo, però, la situazione è diventata difficile da gestire. Nella zona sud di Roma, quella dei castelli romani, per esempio, alcuni esponenti riconducibili al clan dei Santapaola sono rimasti coinvolti in un tentativo di strage: sono state uccise due persone, probabilmente per una vicenda legata al traffico di droga, il mancato pagamento di una partita di cocaina. Il commando che ha portato a termine l’operazione vedeva coinvolta anche una donna, vigile urbano del comune di Albano Laziale. Anche lei secondo gli inquirenti legata alla famiglia mafiosa catanese».

Si è rotto qualcosa a livello di accordi economici, di spartizione del territorio?
«L’insediamento delle mafie in un mercato vergine non è mai una cosa repentina. All’inizio è piuttosto lento: man mano che trovano appoggi aumentano la consistenza del giro d’affari. Fanno quello che normalmente fanno le holding economiche. Nei primi tempi non sparano nemmeno, non si comportano in modo violento. Quando il potere sul territorio è consolidato, invece, mostrano la loro vera faccia, non si accontentano più delle precedenti spartizioni, stravolgono gli equilibri e ne cercano di nuovi. Nascono le guerre tra cosche o tra cosche e bande locali, e le diatribe per questo o quell’altro investimento».

Che tipo di rapporti intercorrono tra le mafie e le bande locali?
«Quando le cosche si insediano in un territorio lontano da quello in cui sono nate entrano per forza in contatto con la criminalità autoctona: se organizzi il traffico di cocaina a Roma devi conoscere il territorio. Se decidi di reinvestire il denaro hai bisogno di tutta una serie di complicità nella zona. Questa flessibilità dei clan è la peculiarità della criminalità organizzata di tipo mafioso: si inserisce nei contesti in cui si trova, si adatta, si mescola. È quella che chiamiamo quinta mafia, viene dalla contaminazione. Per fare affari i clan non vanno tanto per il sottile. Per esempio i mercati ortofrutticoli: famiglie di Palermo, Catania e soprattutto Vittoria sono costrette a interagire con la camorra e la ‘ndrangheta, per spartirsi le fette di competenza. E non disdegnano nemmeno di inglobare pezzi della politica».

Alla fine degli anni ’80 pare si fosse ipotizzato un accordo tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta per spartirsi l’Italia senza pestarsi i piedi: i primi al centro e i secondi al nord. Adesso però la malapianta si sta espandendo anche in Emilia Romagna e in Toscana e più forte nel Lazio sembra la presenza della camorra. Cosa è successo da allora?
«In realtà cambia sempre tutto. Cambiano i rapporti, i personaggi, le strategie. Finché la situazione non si stabilizza si muore. La lettura che Libera dà delle sparatorie e degli omicidi nel Romano è questa: i clan si stanno riorganizzando, stanno cambiando assetto. Roma è una piazza troppo importante per essere in mano solo alla ‘ndrangheta, a Cosa nostra o alla camorra. I morti ammazzati parlano ai vivi, dicono loro chi vuole cosa. Il mercato ortofrutticolo è il più conteso».

E Cosa nostra cosa vuole?
«Cosa nostra vuole Civitavecchia, il porto di Roma, quello dei container ma anche quello dei traghetti verso le grandi isole del Paese e i grandi porti del Mediterraneo, cioè Tunisia e Marocco. Quello che è emerso da alcune indagini – tutt’ora in corso – è che per la spartizione dei porti ci sono accordi con le mafie etniche. La movimentazione delle merci, per esempio, è gestita assieme alla mafia cinese».

Perché tutto questo interesse nei confronti della capitale?
«Perché il bacino di utenza di una città come Roma è incredibilmente più grande rispetto a Catania o Casal Di Principe. La mafia guarda la capitale con gola e non lo fa da oggi, ma da trent’anni. Ormai non ha nemmeno più bisogno di piazzare ai posti di potere professionisti o politici che vengano direttamente dalla Sicilia: c’è materiale umano che accoglie le proposte mafiose direttamente qua nel Lazio».

A proposito di accordi tra le diverse mafie, l’operazione Sud Pontino ha rivelato sodalizi tra famiglie siciliane, clan camorristici e ‘ndranghetisti per il controllo del trasporto su strada di merci per la grande distribuzione. «Una sorta di monopolio – scrive la Dia – che imponeva le ditte di autotrasporto e i prezzi di acquisto della merce dai produttori». A Catania sarebbe un grande classico, ma a Roma?
«Anche qui l’appetito delle mafie si è concentrato sulla grande distribuzione. Oltre che il trasporto delle merci, la costruzione di grossi centri commerciali è un terreno fertile, per via della difficoltà di tracciare gli investimenti economici. Al momento, proprio su questo ci sono delle indagini in corso. Il problema è che fino a qui non ci si doveva nemmeno arrivare: si è negata per tanti anni la presenza della mafia a Roma, si parlava al massimo di tentativi di infiltrazione. Oggi è impossibile chiudere ancora gli occhi, la magistratura e le forze dell’ordine hanno scoperchiato la pentola. E si è scoperto che i famosi 150 miliardi di euro che guadagnerebbe la mafia ogni anno vengono in buona parte investiti nelle imprese di più imponente impatto commerciale a Roma e nel resto del Lazio».

La Dia tiene sotto controllo i lavori per la linea C della metropolitana romana. Lo scorso anno l’opera è stata scelta dall’Osservatorio centrale sugli appalti per avviare una sperimentazione di nuovi metodi nel monitoraggio finanziario. Nello stesso anno è stata disposta un’ispezione nel cantiere. Com’è andata? Hanno rilevato anomalie?
«Le indagini patrimoniali sono ancora in corso, ma Dia e Dda romane hanno gli occhi aperti. Aggiungo che molte delle operazioni che hanno a che fare con questioni finanziarie partono dalle procure del Sud – da quelle siciliane e campane in particolar modo – che vengono direttamente qui a portare a termine sequestri che probabilmente approderanno a confisca. Rapporti tra imprenditori romani e casalesi o santapaoliani sono accertati e credo che quella che sta emergendo sia solo la punta dell’iceberg. Se per trent’anni la volontà politica è stata di ignorare il fenomeno, è logico che nel frattempo quello abbia scavato in profondità indisturbato».

Eppure le statistiche delle segnalazioni per associazione mafiosa dicono che nel Lazio la situazione non è poi così grave.
«Nel 2010 il numero di procedimenti per associazione mafiosa avviati dalla dda di Roma ha superato quello di Reggio Calabria. Il dato inquietante è questo».

Il Lazio ha un numero molto alto di denunce per estorsione e una cifra consistente di segnalazioni di casi di usura. Peggio fa solo la Lombardia. Ci sono gruppi particolarmente attivi in questo campo?
«In realtà no. Si appoggiano tutti alla criminalità locale, appaltano questi lavori a chi sta già sul territorio e non c’è un clan più dedito all’estorsione di un altro. I mercati ai quali puntano sono diversi, i mafiosi sono diventati più borghesi».

Borghesi in che senso?
«Il killer o il latitante, quando arrivano, è perché servono: serve il controllo militare, a supporto dell’economia reale e legale. Se ci sono soldi da investire, non arrivano i killer: arrivano i politici. C’è tutta un’area grigia, che è quella del concorso esterno in associazione mafiosa, che è inquietante quanto e forse più della violenza fisica. E questo della mafia borghese non è più solo un aspetto della camorra, è un passaggio logico e forzato di tutte le associazioni criminali di stampo mafioso. È chiaro che se devo costruire un centro commerciale in un quartiere di Roma con 300, 400 mila abitanti ho bisogno di chi mi dia le concessioni edilizie».

 

[Foto di Gianfranco Petrella]

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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