Non solo contrasti interni e tra i diversi clan. Ci sono anche beghe di vicinato e questioni d’onore alla base dei nove omicidi mafiosi avvenuti a Catania tra giugno del 2001 e marzo del 2010. A scoprirlo è stata la direzione distrettuale antimafia etnea nel corso dell’indagine Revenge III. Questa mattina la squadra mobile etnea ha arrestato due pregiudicati, Giovanni Musumeci e Paolo Ferrara, mentre altri 15 provvedimenti restrittivi sono stati notificati ad altrettante persone già in carcere. In tutto 17 esponenti mafiosi catanesi, quasi tutti affiliati ai Carateddi, frangia del clan mafioso Cappello. L’indagine, durata tre anni, riprende il filo delle precedenti operazioni Revenge e si è avvalsa delle testimonianze di diversi collaboratori di giustizia tutti indagati nello stesso procedimento filmati e intercettazioni, svolte anche al cimitero di Catania. «L’indagine ci ha anche permesso di individuare le regole spietate applicate dal gruppo nei confronti di soggetti esterni», spiega il neo procuratore capo Giovanni Salvi.
Omicidi che dimostrano ancora una volta la specificità dei Carateddi: un gruppo criminale già noto in passato per il suo livello di crudeltà e il facile ricorso alla violenza come strumento d’intimidazione o risoluzione dei contrasti personali. Una frangia, ma compatta, ricca e forte, sottolineano i magistrati, tanto da tentare la scalata a Cosa Nostra etnea. Contro i rivali Santapaola – come dimostra l’omicidio nel 2009 di Raimondo Maugeri, boss della famiglia Santapaola-Ercolano ma anche all’interno del loro stesso clan, con la contrapposizione nella seconda metà del 2008 al gruppo Sciuto-Tigna. Nell’agosto di quell’anno veniva ucciso Sebastiano Fichera: un’epurazione interna decisa da Biagio Sciuto per motivi economici. Tre mesi dopo i Carateddi, a cui Fichera era comunque ritenuto vicino, rispondono con l’omicidio di Giacomo Spalletta, esponente di spicco della famiglia Sciuto-Tigna. Da questi ultimi, però, non è mai arrivata un’ulteriore risposta. Una delle prove, secondo il titolare delle indagini sostituto procuratore Pasquale Pacifico, dell’ascesa negli equilibri criminali cittadini del gruppo dei Carateddi.
Non solo contrasti per il potere però. Tre dei nove omicidi oggi risolti non riguardano questioni criminali, ma d’onore. Come l’uccisione nel 2001 di Mario D’Angelo, imprenditore agricolo a capo di un’azienda confinante con quella di un parente del boss Domenico Privitera. Una serie di dissidi di vicinato ed ecco che viene decisa la morte di D’Angelo. Così come quella, avvenuta nel 2009 in via Palermo, di Orazio Daniele Milazzo, colpevole di essere il convivente della vedova di Massimiliano Bonaccorsi, zio di Sebastiano Lo Giudice, a capo della cosca. Una questione d’onore come quella che aveva ucciso indirettamente due anni prima Salvatore Gueli, ritenuto da Lo Giudice vicino al boss del clan Cappello, Angelo Cacisi. Per amore del quale una cugina di Lo Giudice si era separata dal marito. Colpa di Gueli, quindi, quella di essere stato in stretti rapporti con la causa del disonore familiare.
Un estremo attaccamento alla famiglia mafiosa e di sangue che però si è ritorto contro i 17 esponenti mafiosi raggiunti stamattina dall’ordinanza. E’ stata un’intercettazione ambientale al cimitero di Catania, ad esempio, a far sapere ai magistrati come e perché Giacomo Spalletta è morto. Appena 20 minuti dopo l’omicidio. Sono stati gli stessi killer infatti a portare la notizia della vendetta alla vedova di Fichera, abituata a trascorrere intere giornate sulla tomba del marito. Una comunicazione a cui sono seguite scene di giubilo, registrate dagli agenti della squadra mobile, e l’ultimo saluto della moglie al defunto marito: «Adesso c’è chi ti fa compagnia».
[Foto di Luciano Burino]
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