Luperini: ‘Intellettuali specie estinta’

Questo ciclo di lezioni ha come sottotitolo ‘Incontri tra scuola e università’. Oggi, alla luce di un sistema di valutazione che premia più la quantità che la qualità, il docente universitario non corre il rischio di dover scegliere tra ricerca e didattica? Quanto è difficile conciliare le due dimensioni?
Purtroppo la tendenza che è in atto è proprio quella di costruire due tipi di università: una che fa solo didattica e una di eccellenza in cui si fa ricerca. Per cui la maggior parte delle università vengono degradate a didattica spicciola, modulare, mentre rimangono pochi centri di eccellenza ben finanziati. La separazione tra didattica e ricerca sta diventando strutturale.

Nella sua lezione ha descritto il ruolo dell’intellettuale, e in particolare di Montale, durante il fascismo: la difesa del valore supremo della cultura di fronte alla violenza e alla volgarità. Quale può essere oggi il ruolo dell’intellettuale?
Negli ultimi trent’anni è avvenuto qualcosa di nuovo: la figura storica dell’intellettuale, nata con l’Illuminismo, non esiste più. Questa si basava sull’idea di esercitare un’influenza sull’opinione pubblica e quindi di avere un ruolo ideologico attivo. Basta pensare al j’accuse di Zola nel caso Dreyfus: è l’esempio di intellettuale moderno che, forte dell’autorità in un campo specifico, acquisisce anche un’autorità universale e parla a tutti. In Italia, ancora nel 1974 la riflessione sul cambiamento dei giovani era affidata ad intellettuali (Sciascia, Pasolini). Proprio da quel decennio in poi, però, l’intellettuale ha perso questa autorità. Ora a fabbricare e diffondere le ideologie sono i mass media e a riflettere vengono chiamati gli specialisti: psicologi, criminologi. Manca una riflessione universale, un’ottica collettiva.

Può essere un giovane come Roberto Saviano una nuova figura di intellettuale?
Saviano è il simbolo di qualcosa che sta succedendo. Lui si rifà a Pasolini. Solo che Pasolini aveva un ideale, mentre Saviano non ha un’ideologia politica complessiva. Non può averla. Lotta contro la camorra, ma non dice che tipo di società vorrebbe. Tuttavia Saviano, quando scrisse Gomorra, era un precario. Come precari erano i giovani studenti francesi che tre anni fa, alleatisi con le banlieu, riuscirono a vincere, facendo cambiare idea al governo. Gli intellettuali diventano marginali. Così l’intellettuale precario, periferico può rappresentare tutti gli esclusi, ma non esercita più una funziona centrale nella società, perché il centro appartiene ad altri.

Ultimamente nel dibattito politico italiano si è parlato di ‘deriva autoritaria’ o di ‘rischio democratico’. Ad esempio a proposito del ruolo del Parlamento. Lei cosa ne pensa?
Secondo me il rischio c’è. Non nelle forme tradizionali del fascismo che in Europa non è oggi possibile, ma nelle forme nuove di un autoritarismo populista, che magari mantiene certe libertà che sono ovvie nell’Europa Occidentale, ma che mira a uno svuotamento di poteri del Parlamento. Si va verso un regime fortemente presidenziale, con un rapporto diretto tra Berlusconi e il suo popolo. Mi sembra abbastanza evidente. Se poi questo processo riesca non lo so, perché può provocare delle contraddizioni interne. Ad esempio, Fini non sembra molto d’accordo…

Tra le voci d’opposizione a questo governo ci sono stati gli studenti. Come giudica il movimento dell’Onda? E perché, secondo lei, fa fatica a darsi una continuità e a trovare nuove forme di espressione?
Il movimento dell’Onda ha avuto degli elementi molto interessanti: la capacità di unire comitati di genitori, studenti, e di agglomerare una larga opposizione sociale. Così come è stato un elemento strategico il fatto di porre al centro di tutto la condizione di precariato. Adesso sta trovando difficoltà perché era troppo legato alla situazione empirica contingente, a quello strumento di lotta. È chiaro che ha un deficit di cultura e quindi fa fatica a consolidarsi. Però prima del ’68 ci sono stati il ’64, il ’67, molte lotte singole che anticiparono il grande movimento studentesco. Magari occorrono ancora quattro, cinque anni.

Non è riduttivo e vincolante questo continuo paragone col ’68?
Sicuramente. Facevo il paragone per spiegare la profondità e l’incisività del movimento. In realtà l’Onda non ha niente a che fare col ’68, che è la fine di un periodo, mentre questo può essere l’inizio di qualcosa di nuovo. Nel ’68 gli studenti avevano una cultura alle spalle, una vecchia cultura che però dava loro una forza. Nei contenuti non si può fare un parallelo, perché oggi non possono essere quelli di quarant’anni fa, non sono quelli e non devono nemmeno essere quelli.

È finito da poco il Festival Internazionale del Giornalismo a Perugia. I media universitari discutono sul proprio ruolo dentro l’ateneo e la città. Quale pensa sia il ruolo del giornalismo universitario? È giusto guardare oltre le mura del proprio ateneo?
Non ho esperienza di giornalismo universitario, quindi non saprei definirne il ruolo. Tuttavia penso sia giusto che un giornale fatto da studenti parta dalle problematiche interne all’ateneo per poi investire tutto. Chissà, forse sarò fuorviato dalla mia mentalità sessantottina, ma penso che guardare oltre le proprie mura sia naturale.


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