L’uomo che venne dagli Studios

Con Bob Rafelson (“Il re dei giardini di Marvin”, “Il postino suona sempre due volte” e “Cinque pezzi facili” – proiettato questa mattina prima dell’incontro), la metamorfosi delle sperimentali “lezioni di cinema” in semplici interviste sembra quasi completata (ammesso che, fatte un paio di dovute eccezioni per la scorsa edizione del TaoFest, di lezioni di cinema vere e proprie si sia mai potuto parlare): il regista esordisce puntando il dito contro uno a caso degli spettatori in sala, ordinandogli simpaticamente di porgli una domanda. Il pubblico è così timido (o, più probabilmente, a corto di domande interessanti) che Bob giunge addirittura a sbottare un “Ehi, se non avete niente da chiedermi vado via!”.

Fortunatamente, dopo i canonici trenta-quaranta secondi di silenzio, qualcuno rompe il ghiaccio, dando il la ad un concerto di curiosità riguardanti non tanto la pura tecnica cinematografica bensì la filmografia del regista americano, la sua carriera e il suo status di importante membro di quella cerchia degli Studios hollywoodiani che è quasi una casta chiusa, a maggior ragione adesso che il cinema americano fatica a venir fuori con autentiche opere  di qualità.
Scopriamo che anche Rafelson, come il Kubrick che Malcom McDowell ci aveva raccontato, preferisce che siano gli attori a capire da sé il modo in cui impostare i personaggi, soprattutto quando si tratta di interpreti intelligenti e creativi (come Jack Nicholson, più volte protagonista dei suoi film). “Bisogna avere il coraggio di commettere errori,” ammette Bob “Preferisco non imporre agli attori la mia visione dei personaggi, a costo di spendere più tempo sulle stesse scene. L’improvvisazione, poi, ha una grande importanza: ci sono personaggi per interpretare i quali non si può non improvvisare, incuriosire la troupe stessa creando rapporti sempre diversi e di sorpresa con i colleghi attori”.

Un tributo al cinema europeo, italiano in particolare, Bob Rafelson lo offre rispondendo alla domanda “Come si sente oggi in rapporto a quell’età dell’oro del cinema americano che negli anni Settanta l’ha vista tra i suoi protagonisti? Crede che un movimento simile possa verificarsi nuovamente?”. “Più che un movimento vero e proprio,” spiega il regista “il fermento che in quegli anni coinvolse, tra gli altri, i miei lavori era dettato dal semplice fatto che io e i miei colleghi americani ci siamo chiesti se fosse possibile anche per noi fare cinema come Fellini, come i grandi registi inglesi da cui personalmente ho tratto grande ispirazione. Credo che non dovremmo esagerare nel guardare alle grandi opere del passato come ad eccezioni irripetibili: ogni generazione acquisisce elementi dalle precedenti e ne fornisce di nuovi alle successive, perché ogni generazione ha i suoi strumenti, i suoi obiettivi, la sua propria voce”.
La censura che negli anni Ottanta colpì il suo “Il postino suona sempre due volte” è stata oggetto di un’interessante domanda cui Rafelson risponde che “non è che gli americani fossero particolarmente pudici in quegli anno o lo siano oggi. È la classe dirigente che detta le condizioni di fruizione della cultura; è stato così allora e lo sarebbe anche oggi con l’amministrazione Bush”.
Tutta diretta all’esperienza cinematografica strettamente personale di Rafelson, invece, l’ultima curiosità: “Ha detto che quello del regista è un mestiere difficile, complesso, a volte più faticoso di quanto possa apparire dall’esterno…ma allora lo ama o lo odia?”. “Il mio mestiere è…come le mie dita dei piedi: non le amo né le odio, semplicemente non posso farne a meno per camminare. È pieno di difficoltà, sì, ma riesce anche a regalarti dei momenti straordinari per cui senza ombra di dubbio vale la pena resistere”.


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