Lorenzo Panepinto, il respiro di un’utopia

E’ passato in sordina quest’anno l’anniversario dell’uccisione di Lorenzo Panepinto, il 16 Maggio del 1911. E’ stato fondatore del Fascio siciliano di Santo Stefano Quisquina (AG), direttore del giornale La Plebe e membro del Comitato della Federazione Regionale Socialista. Le sua figura, il suo pensiero,  ancora oggi, si ripropongono in tutta la loro inalterata e scottante attualità. Per questo vi proponiamo un articolo che lo ricorda. Si tratta non solo di un omaggio alla memoria, ma di uno spunto per la riflessione sul presente.

di Luigi Capitano

LORENZO PANEPINTO. IL RESPIRO DI UN’UTOPIA

di Luigi Capitano

Lorenzo Panepinto rimase vittima dei biechi interessi di quel blocco clerico-mafioso che a Santo Stefano Quisquina come a Corleone e in altre agrotown siciliane si opponeva ai primi coraggiosi esperimenti di socialismo rurale e municipale che si tentavano all’alba del Novecento, dopo il tramonto dell’esperienza dei Fasci. Ma Panepinto rimase anche vittima del pregiudizio per il quale assassinando un uomo ci si illude di poter uccidere al tempo stesso le idee di cui è portatore. Sta di fatto che l’idea-guida di Panepinto rimase ben viva per lungo tempo, a dispetto dei mandanti morali e politici che quasi certamente non mancarono, come lamentava Napoleone Colajanni in un’interpellanza alla Camera nel 1920.

Il poliedrico Lorenzo Panepinto (che fu maestro elementare, organizzatore dell’incipiente cooperativismo contadino, pittore e attivista sindacale anche a Tampa, in America) guardava all’ideologia socialista nella versione riformista di Napoleone Colajanni, alla pedagogia libertaria di Ferrer e a un più vasto spettro di riferimenti eclettici che vanno dal mazzinianesimo al marxismo, al positivismo, al socialismo utopista; il tutto non senza l’influsso quasi inevitabile dello spiritualismo platonico-cristiano. Ma è all’attualità del suo pensiero-azione che vorremmo piuttosto provare ad accennare. Malgrado gli studi su Panepinto siano già da qualche tempo passati dal livello della vicenda biografico-cronachistico-documentaria a quello di una considerazione più critica e avvertita del contesto storico in cui si muove il nostro personaggio, l’attualità del pensiero-azione di Panepinto impone qualche riflessione, a cento anni di distanza dalla sua scomparsa. A questo proposito, si può dire che la visione panepintiana, pur senza pretendere di assurgere a una nuova Weltanschauung, riesce a suo modo ad avere il ‘presentimento’ di motivi che verranno autonomamente sviluppati nel Novecento filosofico, specie dal marxismo più eterodosso e creativo: da Antonio Gramsci e da Ernst Bloch, come pure da taluni esponenti della Scuola di Francoforte.

Accennerò soprattutto ai primi due, anche se dovrebbe apparire evidente a chiunque che in Panepinto è presente in nuce anche una “teoria critica” che rimane parte integrante della sua visione dell’utopia così come della sua pedagogia della liberazione, nonché di quella cultura attiva capace di sottrarsi all’egemonia e al sistema di potere delle classi dominanti. Per fare un esempio, anziché limitarsi ai problemi di corto respiro della scuola e dell’istruzione, se un insegnante anche oggi non s’abbadasse manzonianamente a far l’oste, cioè a compiere il puro e semplice dovere di istruttore e funzionario del sapere per il quale è pagato, che cosa dovrebbe fare? Dovrebbe cominciare a pensare – e a far pensare – in modo critico, cioè dovrebbe cominciare a contestare l’esistente, a smettere di essere un servo dei servi del potere. In questo senso egli intuiva la dimensione politica dell’istruzione pubblica, parlando di un “partito della scuola”. Panepinto è forse uno dei pochi intellettuali “marginali” che ai suoi tempi riuscirono ad aprire gli occhi su simili questioni con una sorprendente lucidità, come quando rifletteva con Ferrer sul fatto che “la scuola imprigiona i fanciulli fisicamente, intellettualmente e moralmente, per dirigere lo sviluppo delle loro facoltà nel senso voluto: li priva del contatto della natura per poterli modellare a sua guisa. E qui sta la spiegazione della preoccupazione dei governi di dirigere l’educazione dei popoli, in modo che siano frustrate le speranze degli uomini di libertà…” (L. Panepinto, Da Bruno a Ferrer, a cura di L. Capitano, © Biblioteca Comunale di Santo Stefano Quisquina, 2004, p. 59).

Anche Gramsci svolgeva considerazioni simili, quando appena pochi anni dopo la morte di Panepinto polemizzava contro quei “piccoli mostri (…) aridamente istruiti per un mestiere, senza idee generali, senza cultura generale, senza anima, ma solo dall’occhio infallibile e dalla mano ferma”. Ma per avere una mano ferma non occorre saper pensare: basta essere dei killer! (come quei “barbari” assassini che troncarono la vita di Lorenzo sulla soglia di casa una “vanamente bella” sera di maggio del 1911). Come Gramsci, Panepinto aveva piena consapevolezza delle gravissime conseguenze della mancata risoluzione della questione agraria nel corso del Risorgimento. Come il pensatore sardo, anch’egli sapeva che il contadino abbandonato alla “sua impotenza”, alla “sua solitudine”, alla “sua disperata condizione” rischia sempre di diventare un “brigante”, un “assassino”, anziché uno che lotta per un’idea di giustizia. Panepinto fu dunque un semplice idealista? Oppure si deve dire di lui che fu “un lottatore contro il suo tempo”, un “inattuale”, un “uomo postumo”? Insomma, un uomo in grado di aprire, lottando, un varco fra il passato e il futuro dell’umanità? Certo è che di una “lotta” sempre aperta “fra passato e futuro” condotta dai “maestri dell’avvenire” parlano tutti gli sparsi discorsi di Panepinto, anche quando non ne parlano sempre esplicitamente. 

Ma quanti squarci di attualità postuma si aprono ancora dai pensieri, dalle parole e dalle pagine di Panepinto! Come Bloch, Panepinto annusava nell’aria la filosofia dell’avvenire, quell’umanesimo sui generis che vedeva l’immagine dell’uomo fermentare nelle possibilità oggettive della storia. (Certo Bloch, con la sua raffinata “ontologia del non ancora” credeva meno di quanto non facesse Panepinto alle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità). Per Panepinto, come per Mazzini, il pensiero viene prima dell’azione, l’idea precede la storia. Mentre il recupero del ruolo dell’ideologia in Gramsci si configura come l’egemonia intellettuale di un umanesimo aperto alla libertà e alla realizzazione dei fini umani, al confronto, quello di Panepinto è piuttosto un umanitarismo che riposa in quella concezione dell’agape che la sedicente civiltà cristiana per prima sembra aver dimenticato nel corso non sempre così fulgido della sua storia.

Il pensiero sociale che animava l’azione di Panepinto andava ben oltre le divisioni del nascente socialismo, sia di quello che circolava ai tempi dei Fasci sia di quello che si veniva formando ad inizio secolo con le tendenze opposte dei riformisti e dei rivoluzionari: “Ciascun di voi dice: Io son di De Felice, ed io di Bosco, ed io di Tasca, ed io dell’Idea. L’idea è essa divisa?” (“La Plebe”, 1902). Parlando di “solidarietà”, di “amore” e di “pace”, l’idea di Panepinto traeva linfa dal cristianesimo delle origini così come dal socialismo utopista. Non rimaneva peraltro estraneo al socialismo di Panepinto un tratto fortemente positivista, come quello che allora non solo predominava in Sicilia ma anche in tutta Italia (eccezion fatta per Antonio Labriola e per Antonio Gramsci). Tale elemento positivista consisteva nella fede nel progresso e nell’evoluzione, che spesso si traduceva nella confusione fra l’evoluzione morale e quella sociale (come in Colajanni). L’idea pura e diamantina che Panepinto aveva del socialismo era bensì, come lui stesso la definiva una “fede”, eppure si trattava di una fede razionale e non dogmatica, il riflesso di un ottimismo della volontà, oltre che della ragione. (L’ottimismo della ragione invece è ciò che distingue Panepinto da Gramsci). Panepinto non dubitava che il mondo di domani appartenesse a quella che chiamiamo ingenuamente “utopia”:

E quella che ieri fu chiamata utopia, oggi diventa realtà, poiché non c’è ostacolo contro lo sforzo poderoso del popolo che procede sicuro sulla via della propria emancipazione (Francisco Ferrer e la “Scuola Moderna”, 29 ottobre 1910).

 

Lasciate libero corso all’utopia che va conquistando i sentimenti dei buoni, suscitando ed orientando le idee dei pensatori, incanalando i bisogni dei sofferenti. Lasciate libero il passo all’utopia di oggi che sarà realtà domani per ineluttabile legge della storia (“La Plebe”, 25 ottobre 1904)

Sempre sulla “Plebe” (25 dicembre 1902), Panepinto scriveva, sotto lo pseudonimo di Athos:

Utopie, dicono i nostri avversari; sogni! Ah, no, non vi illudete, ormai sono troppo diffuse le nostre idee, ormai troppi fatti e troppi fenomeni dimostrano che la presente società è destinata a scomparire e che una nuova, più grande, più bella, sta per sorgere all’orizzonte. Meditate, o voi che combattete, meditate su queste parole profonde di Anatole France: “Solo gli utopisti hanno ragione. I saggi muoiono e muore con essi la loro saggezza caduca. Resta la fecondità dell’utopia”.

Le ideologie passano, ma le idee restano, così come restano quegli orizzonti luminosi che si vorrebbero liquidare con una semplice parola, pronunciata con tono ottusamente sprezzante: “utopia”. Ora, in ogni socialismo brilla l’idea della giustizia, così come in ogni democrazia respira l’idea della libertà. Panepinto si muove fra democrazia e socialismo con la forza e il respiro lungo delle idee, non già con lo sguardo corto delle ideologie e tanto meno con la spregiudicata miopia della “tecnopolitica” in auge ai nostri giorni. Democrazia e socialismo assurgevano in lui quasi a categorie dello spirito, a movimenti o idee perenni, per quanto in perpetua evoluzione. Per tutto questo Panepinto si pone su un’onda più lunga rispetto alla visione “antiquaria” della storia, quella di chi “conserva e che venera il passato”, quella prediletta dagli storici che intendono “custodire religiosamente i documenti del passato”. Ma non vedo francamente come si possa rendere un merito a chi lascia un segno – piccolo o grande che sia – nella storia semplicemente conservandone e venerandone gelosamente e religiosamente le reliquie. Occorrerebbe invece avere il coraggio e la forza di riprendere il cammino interrotto, cominciando dalla testa e non certo dalle considerazioni più pedestri. 

Ai tempi della Resistenza avremmo forse visto Panepinto accanto a un Pompeo Colajanni – nome di battaglia: Nicola Barbato –, nipote di quel Napoleone Colajanni che era stato fra i suoi maestri. Oggi l’avremmo trovato magari fra gli immigrati di Lampedusa a sostenere la loro causa, accanto agli imprenditori taglieggiati dalla criminalità mafiosa, ma anche contro tutte quelle ditte, le multinazionali e i consorzi, in un modo o in un altro collegati con la mafia che impongono appalti e autorizzazioni agli Enti locali. Si pensi pure ad alcune invereconde concessioni decennali, nella nostra area dei Monti Sicani, del prelievo di un bene comune come l’acqua, nonché della sua gestione e distribuzione! La mafia dell’acqua – come io la chiamo – si è oggi sostituita a quella del latifondo: quanti se ne avvedono veramente fra i nostri politici? In un contesto di impegno e di lotta meno ‘provinciale’, avremmo senz’altro ritrovato Lorenzo Panepinto fra coloro che non hanno timore di denunciare le inquietanti collusioni fra mafia e Stato che aduggiano ancora il crepuscolo della nostra Repubblica.

Ma Panepinto resta ancora “un maestro dell’avvenire”, un maestro di Libertà e di Giustizia, per noi così come per tutte le generazioni che vogliono tornare ad attingere a queste due idee-guida che da sempre hanno illuminato il cammino dell’uomo. Giustizia e Libertà rimanevano in cima ai pensieri di antifascisti quali Piero Gobetti, Carlo e Nello Rosselli. Queste due semplici parole che diedero sostanza al nostro “secondo Risorgimento” – la Resistenza – dovrebbero tornare a guidare, fuori da ogni retorica, anche il Risorgimento della “terza Italia”, come la chiamava Mazzini (ma per Panepinto era piuttosto la “quarta”, dopo quella dei “ministri prevaricatori”): non più quella dei cesari e dei papi, né quella del malaffare al potere, ma quella delle donne e degli uomini liberi.

 

(Per un approccio più vicino al contesto sociale e culturale siciliano di fine Ottocento-inizio Novecento, mi sia consentito rimandare al mio articolo Lorenzo Panepinto. Le ragioni dell’utopia, “Oltre il muro”, 2/2011, pp. 40-49).

 

 


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