L’OPINIONE/Il plebiscito in Crimea come quello della Sicilia nel 1860

L’OPINIONE DI…. GABRIELE BONAFEDE. LE SIMILITUDINI TRA IL VOTO DI IERI NELLA PENISOLA DEL MAR NERO E QUELLO SICILIANO DI 154 ANNI FA SONO EVIDENTI. QUANTI SONO STATI I VOTANTI IN CRIMEA CHE SONO STATI ZITTITI AL PARI DEL CICCIO TUMEO CHE TUTTI ABBIAMO LETTO NEL GATTOPARDO? MOLTI INDIPENDETISTI SICILIANI NON HANNO CAPITO QUANTO I DUE EVENTI SONO SIMILI E SI SONO AFFRETTATI A SOSTENERE LA RUSSIA DI PUTIN. SCONFESSANDO LA PROPRIA RETORICA PORTATA AVANTI DA ANNI. PECCATO.

di Gabriele Bonafede

Fanno ridere gli indipendentisti siciliani che inneggiano al risultato plebiscitario del referendum in Crimea che sancisce l’annessione della penisola alla Russia.  Dopo aver per lungo tempo denunziato, e giustamente, come un falso della storiografia ufficiale il risultato plebiscitario nell’annessione della Sicilia all’Italia nel 1860, adesso plaudono all’evento in tutto simile svoltosi ieri in Crimea.

Carri armati russi ai confini dell’Ucraina

Come l’avventura dei Mille in Sicilia fu di fatto un invasione piemontese, realizzata da un’armata senza insegne ma in realtà di un’altra potenza, quella degli “irregolari” russi in Crimea, in tutto simili alle bande che aiutavano  Garibaldi con il mafioso “Sedara” di turno, si è impossessata della Penisola sul Mar Nero per poi realizzare un plebiscito-farsa. Il risultato delle votazioni è simile: 97% per l’annessione della Crimea alla Russia, grosso modo come fu per l’annessione della Sicilia al Piemonte e all’Italia nel 1860.

L’abbaglio preso da molti indipendentisti siciliani è colossale. Di fatto la Russia spera adesso d’invadere l’Ucraina dalla Crimea, come garibaldini e piemontesi fecero quando invasero il Regno di Napoli dalla Sicilia (Crimea) e dalle Marche (Ucraina orientale) 154 anni orsono. Incredibile come gli indipendentisti siciliani, o per lo meno molti di essi, si siano dimenticati di botto della loro stessa logica.

La retorica degli indipendentisti siciliani sul plebiscito siciliano, mirabilmente dipinto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo” nella sua vera essenza storico-politica, è oggi completamente sconfessata. E ciò rende poco credibile tutta l’impalcatura logica sulla lettura della storia da parte degli stessi indipendentisti che oggi sostengono il risultato delle votazioni in Crimea come legittimo. Un’incoerenza colossale, anche lasciando da parte le evidenti istanze riguardanti i diritti umani che vengono anch’esse tradite: diritti umani spesso calpestati dalla Russia di Putin, così come furono calpestati dalle armate italo-piemontesi nel Mezzogiorno occupato e martirizzato a partire dalla strage di Bronte. L’incoerenza degli indipendentisti siciliani è fenomenale. Peccato. È un’occasione di coerenza persa in modo incredibile.

Una scena di “Bronte cronaca di un massacro” di Vancini

Oggi, 17 Marzo, anniversario dell’Unità d’Italia, evento giustamente ricordato dagli indipendentisti siciliani come una data quanto meno controversa per tutti i siciliani, val la pena ricordare le parole di Ciccio Tumeo, personaggio-chiave in un passaggio fondamentale del  romanzo “Il Gattopardo”. Parole che sono tristemente vere oggi per la Crimea come allora per la Sicilia, così scriveva Tomasi di Lampedusa:

“Dopo il seggio elettorale venne chiuso, gli scrutatori si posero all’opera ed a notte fatta venne spalancato il balcone centrale del Municipio e don Calogero si rese visibile con panciera tricolore e tutto, fiancheggiato da due ragazzini con candelabri accesi che peraltro il vento spense senza indugio. Alla folla invisibile nelle tenebre annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati :

Iscritti 515; votanti 512;  ‘si” 512;  “no” zero.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Dal fondo oscuro della piazza salirono applausi ed evviva; dal balconcino di casa sua Angelica, insieme alla cameriera funerea, batteva le belle mani rapaci; vennero pronunziati discorsi: aggettivi carichi di superlativi e di consonanti doppie rimbalzarono e si urtavano nel buio da una parete all’altra delle case; nel tuonare dei mortaretti si spedirono messaggi al Re (a quello nuovo) ed al Generale; qualche razzo tricolore si inerpicò dal paese al buio verso il cielo senza stelle; alle otto tutto era finito, e non rimase che l’oscurità come ogni altra sera, da sempre.

Sulla cima di monte Morco, adesso tutto era nitido sotto la gran luce; la cupezza di quella notte però ristagnava ancora in fondo all’anima di Don Fabrizio. Il suo disagio assumeva forme tanto più penose in quanto più incerte : non era in alcun modo originato dalle grosse questioni delle quali il Plebiscito aveva iniziato la soluzione: i grandi interessi del Regno (delle Due Sicilie), gl’interessi della propria classe, i suoi vantaggi privati uscivano da tutti questi avvenimenti ammaccati ma ancora vitali; date le circostanze non era lecito chiedere di più; il disagio suo non era di natura politica e doveva avere radici più profonde radicate in una di quelle cagioni che chiamiamo irrazionali perché seppellite sotto cumuli d’ignoranza di noi stessi.

L’Italia era nata in quell’accigliata sera a Donnafugata; nata proprio lì in quel paese dimenticato quanto nell’ignavia di Palermo e nelle agitazioni di Napoli; una fata cattiva però della quale non si conosceva il nome doveva esser stata presente; ad ogni modo era nata e bisognava sperare che avrebbe potuto vivere in questa forma: ogni altra sarebbe stata peggiore. D’accordo. Eppure questa persistente inquietudine qualcosa doveva significare; egli sentiva che durante quella troppo asciutta enunciazione di cifre come durante quei troppo enfatici discorsi, qualche cosa, qualcheduno era morto, Dio solo sapeva in quale andito del paese, in quale piega della coscienza popolare.

Il fresco aveva disperso la sonnolenza di don Ciccio, la massiccia imponenza del Principe aveva allontanato i suoi timori; ora a galla della sua coscienza emergeva soltanto il dispetto, inutile certo ma non ignobile. In piedi, parlava in dialetto e gesticolava, pietoso burattino che aveva ridicolmente ragione.

«Io, Eccellenza, avevo votato ‘no.’ ‘No,’ cento volte ‘no.’ Ricordavo quello che mi avevate detto: la necessità, l’inutilità, l’unità, l’opportunità. Avrete ragione voi ma io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati (e percuoteva sulle sue chiappe gli accurati rattoppi dei pantaloni da caccia) e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s’inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco! Per una volta che potevo dire quello che pensavo quel succhiasangue di Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito, come se fossi niente immischiato con nessuno, io che sono Francesco Tumeo La Manna fu Leonardo, organista della Madre Chiesa di Donnafugata, padrone suo mille volte e che gli ho anche dedicato una mazurka composta da me quando è nata quella… (e si morse un dito per frenarsi) quella smorfiosa di sua figlia!»

Qualcuno disse “La rivoluzione non è un pranzo di gala”

A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l’enigma; adesso sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata, la buonafede; proprio quella creaturina che più si sarebbe dovuto curare, il cui irrobustimento avrebbe giustificato altri stupidi vandalismi inutili. Il voto negativo di don Ciccio, cinquanta voti simili a Donnafugata, centomila “no” in tutto il Regno non avrebbero mutato nulla al risultato, lo avrebbero anzi reso più significativo, e si sarebbe evitata la storpiatura delle anime. Sei mesi fa si udiva la voce dispotica che diceva: “fai come dico io, o saranno botte.” Adesso si aveva di già l’impressione che la minaccia venisse sostituita dalle parole molli dell’usuraio: “Ma se hai firmato tu stesso? Non lo vedi? E’ tanto chiaro! Devi fare come diciamo noi, perché, guarda la cambiale! la tua volontà e uguale alla nostra.”

 


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