Licata, dove i beni culturali cadono a pezzi  Dai meloni marci ai turisti precipitati in ipogeo

Si allunga la lista dei beni culturali di Licata che cadono a pezzi e chiudono i battenti. Tra giovedì e venerdì della scorsa settimana due crolli hanno interessato altrettanti monumenti simbolo della città agrigentina: la Grangela e il complesso del Carmine. Il primo è un ipogeo che durante la dominazione greca veniva utilizzato per approvvigionare di acqua la città e dove una scala di metallo si è interamente staccata dal proprio supporto trascinando con sé sette turisti che hanno riportato solo qualche lieve contusione; il secondo è un ex convento medievale, già punto di riferimento per i carmelitani di tutta la Sicilia, e attuale sede del Dipartimento comunale dei Servizi Demografici: è qui che si è registrata la caduta di due forati dal soffitto dell’ingresso, che per un soffio non hanno centrato una passante.

Tra i due, il più delicato è sicuramente il caso della Grangela, che è stata immediatamente posta sotto sequestro dall’autorità giudiziaria. Il bene è gestito dall’associazione archeologica Finziade ed è inserito in un circuito del quale fanno parte anche la Tholos, antico deposito coevo alla Grangela, e i rifugi antiaerei della seconda guerra mondiale, già camminamento sotterraneo del Castel Nuovo. «Abbiamo deciso di chiudere anche gli altri due siti in via cautelativa – spiega Fabio Amato, presidente di Finziade – dato che sono venute a mancare le condizioni di sicurezza generali. In un periodo come questo è un bel danno, sia per la città che per la nostra attività di volontariato, che portiamo avanti con abnegazione garantendo l’apertura anche nei giorni festivi, senza alcun compenso pubblico e praticando la tariffa simbolica di 75 centesimi a monumento. Non attribuisco colpe a nessuno, ma adesso è giusto che la magistratura faccia chiarezza e che i tecnici valutino quanto accaduto».

Interviene anche il neoassessore Vincenzo Ripellino, il quale ha ricevuto la delega ai beni culturali proprio lo stesso giorno del crollo. «Fortunatamente non ci sono stati danni gravi alle persone. Adesso attendiamo i risultati delle indagini sulla Grangela, mentre siamo già al lavoro per la riapertura immediata degli altri due siti. Il peggio è stato evitato – prosegue Amato – sia perché la scala non si è spezzata, adagiandosi sul fondo del pozzo, sia perché i turisti vi sono rimasti aggrappati, senza precipitare». 

Frattanto, il museo di Licata rimane clamorosamente chiuso nonostante il restauro sia stato completato già da qualche anno; la pulizia delle spiagge non è ancora stata avviata, con il Comune che ha diffidato il libero consorzio provinciale e sta cercando di provvedere in autonomia; i cartelli turistici sbagliati sono ancora in fase di sostituzione. Di oggi, infine, è la foto che ritrae il pianoro antistante il Castel Sant’Angelo, incantevole ed emblematica fortezza aragonese che domina tutta la città, completamente disseminato di meloni andati a male. In questa situazione paradossale, da una parte, nuove strutture ricettive si aggiungono ai due villaggi vacanze e al porto turistico già presenti, e dall’altra ai migliaia di visitatori che giungono in città si propina una Licata praticamente inagibile, una bellezza incatenata. 

E mentre i riflettori dei media rimangono puntati sul fenomeno dell’abusivismo, con risultati molto spesso ben oltre i limiti dell’esasperazione, non sembra palesarsi alcun progetto concreto sul riscatto della città. Nel frattempo che la gogna social e socio-politica miete impietosamente le proprie vittime, reali e strumentali, e Licata viene dipinta per quello che non è, la città del mare inizia a mostrare segni di cedimento anche strutturali. Con conseguenze molto lontane dal rilancio turistico, di fatto incentivato solo dai privati, e prossime, invece, alla congestione totale delle attività di promozione del territorio. 

Gino Pira

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