Con il libro “Recuerdo de la muerte”, Miguel Bonasso è stato uno dei primi a far conoscere la verità sulla dittatura militare in Argentina. Una persecuzione vissuta sulla propria pelle, con una condanna a morte e due anni vissuti in clandestinità. Ma Bonasso è anche giornalista e attualmente deputato al Parlamento argentino. Step1 lo ha intervistato al termine della conferenza “La letteratura e il terrorismo di stato in Argentina negli anni della dittatura”. Una chiacchierata tra narrativa, giornalismo militante e politica: tre aspetti che, nella vita di Bonasso, appaiono indivisibili.
Abbiamo appena parlato di dittatura e desaparecidos. La Guerra Sucia [Guerra sporca ndr] è paragonata all’Olocausto. Quali sono gli elementi che li uniscono?
La parentela tra le due forme di repressione sta nel fatto che si tentava di identificare la struttura cellulare di un’organizzazione e i suoi rapporti con quelle successive, in modo da ricostruire la piramide e arrivare al vertice: questo era il meccanismo di tortura usato per ottenere le informazioni. Per quanto riguarda le torture, le pressioni psicologiche e tutto questo genere di repressione, la scuola che si seguiva non era solo quella nordamericana, ma c’era anche una grande influenza francese. La stessa frase “Guerra Sucia” viene direttamente dal francese.
“Romanzo reale, o realtà romanzata”: così ha definito lei stesso il suo primo libro “Recuerdo de la Muerte” [Ricordo della Morte ndr]. Quant’è difficile unire realtà e finzione quando tanto sangue è stato sparso davvero?
È molto difficile, senza dubbio. Per me è stato molto duro, ma credo che questo abbia dato al libro la possibilità di avere un’enorme circolazione: “Recuerdo de la muerte” ancora vende, le nuove generazioni ancora lo leggono, è tradotto in molte lingue. Fu un libro di massa, non un libro d’élite conosciuto solo negli ambienti accademici. Per ottenere questo dovevo immedesimarmi nella soggettività dei personaggi, rompendo e superando alcune regole del genere di non-finzione, che sono più strette. Volevo raccontare da un punto di vista affettivo, con sentimento, ma sempre rispettando quelli che sono stati i fatti.
In questo libro lei racconta la storia politica e sociale del suo paese attraverso personaggi sconosciuti, e non attraverso quelli che detengono il potere, come si fa di solito nel genere di denuncia. Perché?
Perché erano quelli che mi permettevano di raccontare la storia. Io ho vissuto in esilio con Jaime Dri, che mi raccontò la sua esperienza e quella di altre persone. Però ci sono combinazioni con personaggi che sono molto conosciuti pubblicamente, come l’ammiraglio Massera, nel capitolo in cui si narra il suo incontro con il capo del campo di concentramento.
Da scrittore, come descriverebbe con una metafora i concetti di “clandestinità” e “libertà”?
Direi che la clandestinità è una forma di carcere, anche se sei apparentemente in libertà, e la libertà è la possibilità di essere veramente se stessi. Non perdere l’identità, questa è la metafora centrale del mio libro. Per questo è perverso il metodo che applicavano: è come il rapimento dei bambini alle prigioniere. Li rubavano alle madri nei campi di concentramento e li davano ad altre famiglie. Era attentare all’identità, è terribile e molto più crudele della stessa tortura fisica e della morte.
Lei ha spiegato che solo da poco è possibile processare gli ex militari per i delitti che hanno commesso contro l’umanità. La Corte Suprema lamenta però la lentezza dei processi. Pensa che il paese non voglia confrontarsi con la sua storia?
In parte è così, ma c’è dell’altro. Devo riconoscere che questo governo, pur con tutti i suoi difetti, ha fatto molto in questo senso. Ha annullato le leggi che impedivano i processi e ne ha fatte di altre per iniziarli. Ma il serio errore che ha commesso è stato quello di non unificare le cause: così si opererebbe con maggiore rapidità, più serenamente e massivamente. Inoltre, nell’apparato giudiziario ci sono molti complici della dittatura. Dei tre, il potere più contaminato dalla dittatura è proprio quello giudiziario.
Lei è anche un giornalista impegnato politicamente. Che spazi ci sono oggi per il giornalismo militante nei grandi mezzi di comunicazione?
È molto difficile, noi giornalisti dobbiamo sempre lottare. Penso che noi, e non i proprietari dei mezzi di comunicazione, dovremmo cercare forme di associazione che permettano di ottenere una maggiore libertà d’espressione, anche per arginare il potere imprenditoriale e la concentrazione editoriale. Personalmente ho la fortuna di essere conosciuto e quindi posso scrivere quello che voglio, non importa quale sia la linea editoriale del giornale: nessuno tocca i miei scritti, e comunque non lo permetterei. Ma questo è possibile solo dopo una lunga carriera, ai giornalisti giovani posso solo dire: unitevi. In Argentina, inoltre, si dovrebbero cambiare alcune leggi al riguardo, perché risalgono ancora all’epoca della dittatura. Non per censurare qualcuno ma, al contrario, per avere un’informazione pluralista, molto più democratica. Oggi comununque c’è una censura che è interna agli stessi mezzi di informazione.
Lei è anche un politico. Come vede la attuale situazione politica dell’America Latina?
Per la prima volta esiste un fenomeno esteso e generalizzato, che spero non si interrompa, in favore di una unità latinoamericana, nonostante le differenze ideologiche che possono esserci tra i vari gioverni. Non abbiamo mai avuto nello stesso momento tanti governi di centrosininistra o comunque fautori dell’unità. È un processo che dobbiamo proteggere, perché penso che sia l’unica possibilità di esistenza: separati non riusciremmo mai a contare a livello mondiale. I nostri popoli sono anche uniti dalla miseria, dallo sfruttamento e dall’arretratezza, per questo gli accordi economici tra i nostri paesi sono un segnale molto positivo e utilissimo. Ma sono iniziati adesso, come ad esempio il “Banco del Sur” [Banca del Sud, ndr].
Lei dice che oggi gli ideali sono gli stessi, ma sono cambiati i modi. Quali sono? Coincidono con quelli dei giovani?
Bisogna modificare la politica tradizionale perché c’è un allontanamento totale dei giovani, che considerano i politici corrotti e demagoghi. E nella maggior parte dei casi hanno anche ragione: succede in Italia come in Argentina, è uguale. Penso che la dirigenza politica debba avere maggiore sensibilità per captare quelli che oggi sono i temi principali che attraggono i ragazzi. Scusate se parlo di me, ma sono la persona che conosco meglio: nel mio caso ho voluto lavorare sul tema dell’ambiente, con una totale opposizione alla deforestazione, con leggi per la protezione dei boschi. Ci sono interessi minerari, grandi imprese con affari per milioni di dollari a cui non interessa proteggere l’ambiente, ma le proprie attività minerarie, come nel caso delle acque di San Juan. A me interessa, invece, perché sono la principale riserva di acqua potabile dell’Argentina: senza oro possiamo vivere, senza acqua no, è semplice. Comunque questo ha fatto sì che molti giovani si siano interessati a quello che stiamo facendo. Si sono avvicinati, hanno iniziato a dare una mano. Penso che la gente percepisca quando c’è un politico che non agisce per interesse personale, ma per la collettività: è l’unico modo per raggiungere l’obiettivo di una democrazia che non sia solo rappresentativa, ma sempre più partecipativa.
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