Libertà di stampa? Non per tutti

Nel nostro paese davvero la libertà di informazione è a rischio?“. Con questa domanda Bianca Berlinguer, direttrice del Tg3, ha aperto giovedì scorso il dibattito dal titolo “Alla democrazia serve una stampa libera, indipendente e plurale”, organizzato da Liberazione nella galleria d’arte romana, “La nuova pesa” nell’ambito di una serie di iniziative per la raccolta di fondi per la sopravvivenza del quotidiano. Lo stato di crisi che lo riguarda, insieme ai quotidiani Il Manifesto, L’Unità, Europa, è giunto quasi alla soglia dell’irreversibilità. Se queste voci dovessero scomparire, come si pensa possa avvenire verosimilmente nei prossimi tre mesi, a soffrirne sarebbe la democrazia, che vive della pluralità di voci dell’informazione.

Lo spunto per l’apertura del dibattito è stata la recente sanzione ricevuta da Michele Santoro dal Consiglio generale d’amministrazione RAI e dal direttore generale Masi per il monologo di “vaffa…nbicchiere”. Loris Campetti, storico redattore de Il Manifesto, senza stipendio da aprile come tutti i suoi colleghi, è convinto che sì, il pericolo per la libertà di stampa è reale. “Basti pensare che solo due giornali hanno aperto con questo tema l’edizione della mattina successiva alla sanzione a Santoro, Il Manifesto e L’Unità, ed entrambi sono stati querelati“. La tendenza a liberarsi di alcune voci del panorama dell’informazione, a parer suo, è evidente. Bisognerebbe sottolineare più il problema democratico, che non quello economico della difficile situazione che si prospetta. 

Se c’è un allarme generale, bisogna ascrivervi anche la concezione per cui la libertà di informazione non per tutti è uguale“, così Stefano Menechini, direttore di Europa, che lancia un appello a non dimenticare, come spesso avviene, il rischio di chiusura di tutti i giornali di idee, di cooperativa e di partito su cui è abbattuta la scure dei tagli, che mai ricevono sostegno mediatico da giornali e trasmissioni televisive e radiofoniche da loro più volte difese, da Annozero a La Repubblica. La chiusura del programma di Santoro per due puntate può considerarsi più grave della minaccia che Liberazione e Il Manifesto chiudano per sempre? Il riferimento alle battaglie portate avanti insieme, non fa che sottolineare il silenzio mediatico rispetto alla crisi dei giornali di idee, che nonostante non coinvolga grandi numeri di audience, costituisce un rischio gravissimo per il diritto dei cittadini ad essere informati. Soprattutto quando si fa riferimento a quotidiani che fanno dei temi di grande rilevanza sociale spesso trascurati dagli altri, dal lavoro, alla condizione dei migranti, ai fermenti del mondo della scuola e dell’università, alle questioni della pace e della guerra e dei beni comuni, il proprio impegno quotidiano.

La difesa dell’articolo 21 non passa per l’indice di ascolto” – sottolinea Giuseppe Giulietti, deputato e fondatore dell’associazione Articolo 21 – “ma per l’indice di dignità, perché esistono, nel mondo dell’informazione, piccole realtà che rappresentano la storia del paese“. La sua proposta è di convocare una riunione congiunta tra giornali, televisioni e radio, e le realtà sociali e politiche che ci credono, per organizzare un evento forte di protesta, che possa rompere il muro del silenzio e celebrare un’iniziativa di vita e non un funerale, almeno questa volta. Riccardo Gianola (L’Unità) propone, invece, un momento di autocritica, perché “forse se molti lettori stanno scomparendo è anche colpa nostra: non riusciamo più a parlare in modo diretto“. E ci racconta del caso Capozzi, licenziato dalla Fiat per aver utilizzato la posta elettronica aziendale per inviare un volantino sindacale, e fatto oggetto di una campagna mediatica a grandi titoli al momento delle accuse, e oggi, che ha vinto la causa, dimenticato in qualche trafiletto.

Che i giornalisti, allora, abbiano delle responsabilità rispetto al calo delle vendite? E’, naturalmente, possibile. Quel che è ovvio è che in una condizione di crisi economica come questa, il lavoro d’inchiesta diventa sempre più difficile e la qualità dei giornali non fa che peggiorare, innescando un circolo vizioso da cui uscire è sempre più complicato. Serve un emendamento urgente, per cui il parlamentare del Pd Vincenzo Vita chiede la mobilitazione, che ponga fine ai tagli varati con la precedente finanziaria, che di fatto non garantiscono più il diritto soggettivo al contributo per l’editoria, trasformato in elargizione arbitraria della Presidenza del Consiglio, e prevedono il raddoppio delle tariffe postali di spedizione. In un paese come l’Italia, dove i lettori di quotidiani sono sempre stati un numero ridotto, ciò non significa altro che accelerare la fine della carta stampata. E’ chiaro che il meccanismo esistente in precedenza peccava, comunque, di incompletezza, fornendo sussidi a qualunque giornale si dichiarasse legato a un partito, indipendentemente dal valore della pubblicazione e dalla sua reale esistenza, ma le misure in atto ad oggi applicano una concezione dell’informazione di tipo mercantilistico, in un panorama in cui a sopravvivere sarà di fatto l’oligopolio dei gruppi RCS MediaGroup, Mediaset e Mondadori e il gruppo L’Espresso, potendo contare sugli investimenti pubblicitari che le piccole realtà editoriali vanno via via perdendo. Non è un caso da sottovalutare, come spiega Dino Greco, direttore di Liberazione, che, ad esempio, la Fiat si rifiuti di acquistare spazi pubblicitari su tutti quei giornali che hanno sostenuto le lotte dei metalmeccanici. Che fine fa, allora, minacciato dal potere politico e da quelli economici, il diritto dei cittadini sancito dalla Costituzione “di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione“? La mobilitazione di chiunque abbia a cuore la ricchezza della pluralità della stampa e voglia scongiurare l’appiattimento qualitativo di un’informazione che vira sempre più verso il gossip, è d’obbligo.


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