L’editto che non c’è

“Credo che se Berlusconi dovesse riguardare quel famoso editto, probabilmente dovrebbe riconoscere che è stato un errore”.

Intervistato a Speciale Tg1 la sera del 6 novembre, al termine di una lunga giornata di lacrime e commozione, Ferruccio De Bortoli si è così espresso a proposito del diktat di berlusconiana memoria.

Nemmeno il tempo di lasciarci illudere dalle fiduciose quanto innocenti parole del direttore del Sole 24 Ore, che il Cavaliere già pensa a redarguire tutti: “non c’è mai stato nessun editto bulgaro, né ho mai detto che questi signori non dovessero fare televisione”.

 

L’Italia – lo diceva lo stesso Biagi – è un Paese senza memoria. Ecco spiegata l’improvvisa amnesia di Silvio Berlusconi, il quale, con tutta la sua buona volontà, proprio non riesce a capire cos’abbia fatto di tanto male per meritarsi questo stuolo di polemiche e critiche.

Bisognerà aiutarlo a scuotersi dall’oblio.

 

Dall’alto delle sue vicende giudiziarie, tra una prescrizione e un’assoluzione, una condanna e un’amnistia, il 18 aprile 2002 l’allora capo del governo definì “criminoso” l’uso che Biagi, Santoro e Luttazzi facevano della tv pubblica, aggiungendo che fosse preciso dovere della nuova dirigenza impedire che ciò continuasse ad avvenire.

Comprensibile e naturale anche la scelta di rilasciare una simile dichiarazione direttamente da Sofia.

Presto e subito sparirono dai palinsesti i volti dei tre “criminali”.

Ma, a chi glielo ricorda, Berlusconi oggi replica: “la verità è che io criticai – e la critica è ancora valida – come veniva usata la tv, soprattutto quella pubblica”.

Per cui di epurazione non si è trattato: il Cavaliere aveva semplicemente espresso una critica dai toni forti ; una fatale coincidenza aveva poi inspiegabilmente portato all’esclusione dalla Rai dei due giornalisti e del comico in questione. Le colpe, ingiustamente, sarebbero ricadute tutte su Berlusconi. Sicuramente una macchinazione dei comunisti: “ancora una volta è stato tutto deformato dalla sinistra”.

 

Ma, in fondo, l’ex premier aveva pure lanciato un chiaro messaggio di pace, o di disponibilità a una qualche trattativa, precisando che “ove i tre cambiassero..”.

“Voce di libertà”, per stessa definizione di Napolitano, la sera dell’editto Enzo Biagi rispose dallo studio del Fatto alle accuse del capo del governo, con gran classe e moderazione, esortandolo a dare un’occhiata alla Costituzione, in cui è scritto che la libertà di stampa e la pluralità delle opinioni costituiscono il principio cardine della democrazia.

Poi rimandò al mittente il sottile – ma nemmeno troppo – invito a occuparsi d’ altro: “eventualmente è meglio essere cacciati per aver detto qualche verità che restare a prezzo di certi patteggiamenti” . Una lezione di giornalismo che non va dimenticata.

 

Insomma, Biagi il problema lo aveva capito benissimo; semplicemente, come tutti i cronisti seri, era scomodo. Aveva dato fastidio la sua intervista a Indro Montanelli nel marzo 2001, in cui l’amico si augurava la vittoria del centrodestra alle prossime elezioni, poiché “Berlusconi è come una di quelle malattie che si curano con il vaccino”.

Beretta, allora direttore di Rai1, censurò alcune risposte.

Il 10 maggio, l’intervista a Benigni. Un riferimento di troppo al conflitto d’interessi, passando per le preferenze elettorali dell’attore, resero nuovamente il Fatto un facile bersaglio.

 

 

Tra una polemica e l’altra, ad ottobre ripartì la nuova edizione del programma, toccando picchi d’ascolto inediti.

Agostino Saccà, direttore di Rai1 e persona poco portata a far di conto, comunicò alla Vigilanza l’esatto opposto, annunciando la necessità di reagire alla concorrenza di Striscia La Notizia con un’offerta continuativa di mezz’ora e ripensando dunque la collocazione del Fatto all’interno del palinsesto. In compenso, continuava ad affermare che il giornalista, insieme a Vespa, fosse uno dei punti forza della Rai.

Anche l’idea di assimilare Biagi a Vespa,oltre ad essere molto discutibile, fa un po’ orrore.

 

Loris Mazzetti, storico collaboratore e amico del cronista, ha recentemente ribadito ad Annozero che l’atteggiamento di Saccà potrebbe essere stato il prezzo da pagare per ottenere la promozione a direttore generale. Gratifica arrivata nel marzo 2002 (cronologicamente dopo aver dichiarato al Corriere la volontà sua e della famiglia di votare Berlusconi alle prossime elezioni).

 

A settembre, ecco andare in onda, dopo il Tg1,  il programma pensato per dar spietatamente battaglia a Canale5  : “Max e Tux”, insieme di strisce comiche di durata più breve del Fatto, gag mute come muta dev’ essere l’informazione che piace a certuni.

Del Noce, che nelle settimane prima dell’esordio della nuova trasmissione, da bravo scolaretto, aveva continuato a “studiare” un nuovo spazio per il giornalista -senza preoccuparsi di concretizzare in tempi rapidi un nuovo contratto-, riuscì perfino a trovare una gloriosa spiegazione per l’insuccesso del duo Lopez-Solenghi: “Max e Tux sono vittime della solidarietà a Biagi che ha provocato un accanimento senza precedenti contro il nuovo programma”. I soliti comunisti vs Max e Tux.

 

Antonio Di Bella, direttore del tg3, e Paolo Ruffini, direttore di Rai3, proposero allora al vecchio cronista un approfondimento giornalistico, stile il Fatto, da accodare al tg serale.

Pronta la replica di Baldassare che, dismessi i panni del re magio e vestiti quelli del presidente Rai, sentenziò che Biagi e il suo entourage sarebbero costati troppo per le finanze della terza rete.

 

Una risposta di stile quella inviata da Enzo Biagi a Saccà: “sono pronto a rinunciare alle clausole finanziare del mio contratto, che non risulta certo tra i più onerosi e desidero che diate anche a me il compenso che tocca all’ultimo giornalista assunto (senza raccomandazioni), da spedire però ogni mese a Don Giacomo Stagni, parroco di Vidiciatico che in un istituto ricovera i vecchi delle mie parti che non hanno nessuno. Sono a disposizione se il mio lavoro può ancora servire”.

 

Dunque, l’ ultimo disperato assalto di Saccà: l’approfondimento dovrà precedere il notiziario, non seguirlo.

Condizione inaccettabile per un giornalista serio come Biagi. “Prima si danno le notizie, poi i commenti”.

Infine, il colpo finale: il licenziamento del cronista con ricevuta di ritorno.

Ecco l’ostracismo di cui oggi parla il cardinale Tonini. Berlusconi, che è così mistico (nel novembre 1994 si autodefinì “unto dal Signore”), non dovrebbe rimanere indifferente alle accuse da parte di una tale personalità ecclesiastica.

 

È così dunque che si tratta un uomo che ha reso un servizio al Paese, con la sua correttezza, la sua onestà intellettuale, la sua dedizione alla professione tanto amata.

I particolari di tali squallide vicissitudini, soprusi e abusi, sono stati ampiamente raccontati in numerosi saggi, da “Regime” di Travaglio e Gomez, a “Quello che non si doveva dire”, scritto dallo stesso Biagi. Da ultimo, “Il libro nero della Rai” di Loris Mazzetti.

Enzo Biagi non ha certo bisogno di commemorazioni; l’imponenza della sua bibliografia, l’ironia della sua penna e la dignità della sua persona bastano per fare di lui il testimone del secolo e il giornalista che parlava ai lettori – e non agli editori o ai potenti-.

Negare l’editto bulgaro significherebbe compiere l’ennesima ingiustizia nei suoi confronti. C’è chi continua a farlo. Ma da un uomo che nel 2003 definì invidiosi della sua posizione due professionisti come Biagi e Montanelli – colpevoli di aver esercitato il diritto di critica in un Paese costituzionalmente libero e democratico- non c’è da lasciarsi stupire (intervista a The Spectator, settembre 2003).

Berlusconi, davvero l’editto bulgaro non c’è stato? Del resto, se le bugie hanno le gambe corte, allora tutto torna.


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