Le tante bugie raccontate su Giuseppe La Loggia dai dc venduti agli americani e dal Pci

OGGI, A PALERMO, TAVOLA ROTONDA SU UNO DEI GRANDI PROTAGONISTI DEI PRIMI DIECI ANNI DELL’AUTONOMIA SICILIANA. PROVIAMO A RICOSTRUIRE LA STORIA DI GRANDE UN PERSONAGGIO

Oggi a Palermo si ricorda la figura di Giuseppe La Loggia. Nel corso di una tavola rotonda, a Palazzo Steri, i relatori proveranno a tracciare la figura di un uomo politico siciliano importante, del quale poco e male è stato detto in tutti questi anni.

Approfittiamo anche noi dell’occasione per dire la nostra. Iniziando col sottolineare che, se poco e male si è detto di Giuseppe La Loggia, ebbene, ciò è dovuto a un lascito negativo che abbiamo ereditato da un certo Pci siciliano e, segnatamente, dalle tesi, secondo noi sbagliate e di parte, di Emanuele Macaluso, e dalle interpretazioni fuorvianti – e altrettanto di parte – di Domenico La Cavera. 

Crediamo sia giunto il momento di rimettere in discussione le tesi di Macaluso e La Cavera su Giuseppe La Loggia e sulla Sicilia politica degli anni ’50 e ’60 del secolo passato. Tesi che, oltre ad essere smentite dai documenti, sono state smentite dai fatti.

Saranno altri – ben più titolati di noi – a raccontare che Giuseppe La Loggia era figlio del noto Errico La Loggia (con due erre e non con la enne, a giudicare dai libri degli anni ’50 e ”60), il padre dell’Articolo 38 dello Statuto autonomistico siciliano.

Noi, oggi, vogliamo tratteggiare, per grandi linee, la figura dei figlio Giuseppe a nostro avviso un grande politico siciliano e grande protagonista dei primi dieci anni dell’Autonomia siciliana. Dicendo questo non inventiamo nulla, perché già Indro Montanelli, in quegli anni, quando parlava di Autonomia siciliana, ripeteva solo tre cognomi: “Alessi, Restivo e la Loggia”.

Il grande giornalista, già alla fine degli anni ’50, riconosceva in Giuseppe Alessi, Franco Restivo e Giuseppe La Loggia i ‘Padri’ dell’Autonomia siciliana e di tutto ciò che di buono, in quegli anni, era stato fatto in Sicilia dopo la seconda guerra guerra mondiale.  Ancora oggi noi concordiamo con il giudizio di Montanelli.

Giuseppe La Loggia viene eletto presidente della Regione siciliana nel 1957. Si dimetterà un anno dopo, vittima di una ‘congiura di palazzo’ che non è tanto contro di lui, ma contro il suo leader politico, Amintore Fanfani. 

Forse, per capire chi è stato Giuseppe la Loggia e quali sono state le scelte politiche fatte sin dall’inizio della sua attività politica all’interno della Dc, bisogna partire da Fanfani.

Fanfani, nella seconda metà degli anni ’50, conquista la segreteria nazionale della Democrazia Cristiana. E lo fa sulla base di un programma politico innovativo, aperto al Psi, che allora faceva fronte comune con il Pci.

Fanfani è il vero, grande alleato dell’allora presidente dell’Eni, Enrico Mattei. Assieme a lui ci sono anche altri grandi democristiani: per esempio, Giovanni Gronchi ed Ezio Vanoni. Ma è Fanfani che tiene il ‘timone’. E che appoggia senza riserve Mattei, che ha dato vita a un Ente di Stato – l’Eni, per l’appunto – che punta a ridurre in Italia il peso delle grandi multinazionali del petrolio americane, inglesi e francesi.

Fanfani e Mattei puntano un’Italia autosufficiente sul fronte del petrolio, per sostenere a costi contenuti lo sviluppo delle attività industriali. E puntano a una politica estera che, sempre in materia di petrolio, consenta all’Italia di dialogare con i Paesi del Sud del mondo su basi paritarie e non con una logica colonialistica, come facevano inglesi, americani e francesi.

Nella seconda metà degli anni ’50 le pressioni sull’Italia – soprattutto da americani e francesi – sono fortissime. Questo ha contribuito ad isolare Fanfani all’interno della Dc, grazie anche a tanti democristiani di quegli anni in ‘servizio permanente ed effettivo’ in favore degli americani (‘ascari a stelle e striscie’).

Quella che gli storici di regime – che in Italia non mancano – hanno sempre fatto apparire come una manifestazione di arroganza, da parte di Fanfani, alla fine, era in realtà una testimonianza della sua debolezza politica. In quegli anni, infatti, Fanfani occupa, contemporaneamente, tre cariche: segretario nazionale del Dc, Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri.

Questo avviene non tanto per il carattere di Fanfani, ma perché, nel suo Partito, la maggioranza non condivide la sua politica estera e il ruolo dell’Eni di Mattei. Detto in parole brutali, la maggioranza della Dc è schierata con gli americani e, di conseguenza, contro Fanfani e contro Mattei.

In questo scenario il ruolo ambiguo lo gioca il Pci. Che, a parole, si dice favorevole al ‘terzomondismo’ di Mattei, ma che – non sappiamo se per motivi di bottega o per altre ragioni – nei fatti, rema contro Mattei e, soprattutto, contro Fanfani.

Questo passaggio va chiarito meglio. Fanfani si batte – secondo gli insegnamenti del cattolicesimo impegnato in politica – per il primato della politica sull’economia. Predica l’intervento dello Stato nell’economia. Con il potenziamento delle partecipazioni statali che già esistono (l’Eni ne è una testimonianza operativa).

Predicando il primato della politica sull’economia, Fanfani apre ai socialisti, che in parte sono stanchi del ‘carrismo’ (cioè dell’appoggio ottuso all’Unione Sovietica comunque e dovunque) e dell’alleanza senza sbocchi con il Pci, che partecipa al governo dell’Italia già allora con il ‘consociativismo’: cosa, questa, che il filosofo siciliano Mario Mineo rimprovererà al Pci alla fine degli anni ’60.

Già nella seconda metà degli anni ’50 Fanfani ipotizza un Governo di centrosinistra Dc-Psi: cosa, questa, che il Pci vede malissimo: in primo luogo perché avrebbe perso parte del potere che esercita con il ‘consociativismo’ (cioè governando in modo occulto con la Dc), sia perché il Psi si sarebbe liberato dal legame con lo stesso Pci, diventando ‘autonomista’: strada che il leader socialista, Pietro Nenni, percorrerà di lì a qualche anno.

E’, quella del Pci di quegli anni, una visione un po’ miserabile della politica: ed è in questo scenario che matura la ‘congiura di palazzo’ contro Fanfani: e matura proprio in Sicilia, mettendo in crisi il Governo regionale di Giuseppe la Loggia, legato, appunto, a Fanfani.

Anche questo è un punto fondamentale: il Governo regionale di La Loggia viene messo in crisi non perché lo stesso la Loggia è amico degli industriali del Nord che vogliono spolpare la Sicilia, ma perché un ampio fronte della Dc nazionale, al soldo degli americani, si vuole sbarazzare prima di Fanfani e poi di Mattei.

In questo fronte anti-Fanfani c’è anche don Luigi Sturzo, il padre del Cattolicesimo sociale italiano, contrarissimo all’intervento dello Stato nell’economia non perché fosse rincitrullito dagli anni, come pensa Giorgio la Pira, ma perché, conoscendo bene i suoi ‘polli’ democristiani, il sacerdote calatino vede oltre: immagina – e non si sbaglia – che le Partecipazioni statali sarebbero diventate fonte di corruzione e la futura tomba della Dc.

L’operazione Milazzo – cioè il Governo regionale che prende il posto del Governo La Loggia – nasce per mettere i bastoni tra le ruote a Fanfani a Roma. E nasce gettando fuori dal Governo della Sicilia la Dc ufficiale, con un presidente della Regione – Silvio Milazzo, democristiano ‘ribelle’ – sostenuto da un variegato schieramento politico che va dal Pci alle destre, fino ai monarchici.

All’inizio, il ‘ribelle’ Silvio Milazzo è d’accordo con i vertici della Dc e con Sturzo. Poi, però, Milazzo si fa prendere la mano e dà vita a un secondo Governo regionale ‘autonomista’ con il Pci e, soprattutto, con i mafiosi di Palermo (Don Paolino Bontà in testa), con i primi mafiosi di Catania e con la mafia trapanese, in testa i cugini Nino e Ignazio Salvo). Questa è storia.

Nella convulsa fase politica del milazzismo c’è di tutto: le idee, tutto sommato non errate, di Domenico La Cavera, che si batte per creare una classe si imprenditori siciliani liberi da condizionamenti; c’è una parte della Dc che vorrebbe fondare un partito cattolico autonomo da Roma, sul modello della Csu bavarese; e ci sono mafiosi che avranno tanto dall’operazione Milazzo: appalti (è in quegli anni che nascono alcune grandi famiglie di imprenditori catanesi piuttosto ‘chiacchierate’) e commesse (è con i Governi Milazzo che i cugini Salvo di Salemi acciuffano le più importanti esattorie della Sicilia).

Rispetto a questi fatti oggettivi – suffragati, anche da atti parlamentari e amministrativi – la storia che una certa sinistra comunista ha imposto è quella di un Giuseppe La Loggia succube dei grandi industriali italiani e di un Governo Milazzo che, attraverso la Sofis (tra le prime esperienze di società per azioni partecipata da un ente pubblico, in questo caso la Regione) gestita da Domenico La Cavera, combatte contro i monopoli per far nascere un’imprenditoria siciliana libera.

Questa storia, per ciò che riguarda Giuseppe la Loggia, è falsa. La verità è che il Pci appoggia l’operazione Milazzo perché deve spezzare l’unità politica dei cattolici. E, in effetti, in un primo momento ci riesce, perché la Dc, alle elezioni siciliane del 1959, si presenta divisa: nasce, infatti l’Unione siciliana cristiano sociale, capeggiata da Silvio Milazzo, Ludovico Corrao e Francesco Pignatone.

Il vero significato politico dell’operazione Milazzo sta nel tentativo di frantumare la Dc in Sicilia: è per questo che il leader nazionale del Pci, Palmiro Togliatti, appoggia il Governo Milazzo, avallando le scelte discutibili di Macaluso e mettendo a tacere un altro grande dirigente del Pci sicilaino di quegli anni, Girolamo Li Causi, contrario all’operazione Milazzo perché appoggiata anche dalla mafia.

C’è, semmai, un altro motivo che portava il Pci ad osteggiare La Loggia: l’opposizione di quest’ultimo ai ‘magheggi’ della Sofis, che già in quegli anni e sin dalle prima battute, è fonte di corruzione.

La Loggia, checché se ne possa dire, è una persona corretta. E quanto fosse temuto dalla vera mafia lo dimostra il ‘caso Tandoy’.

Il 30 marzo del 1960, ad Agrigento, in viale della Vittoria, ammazzano il commissario delle Squadra mobile della Città dei Templi, Cataldo Tandoy. Invece di cercare le ragioni del delitto tra i mafiosi di Raffadali, gli inquirenti si inventano la tesi del delitto passionale, accusando il fratello di Giuseppe La Loggia, Mario, noto psichiatra e persona al di sopra di ogni sospetto.

Per lunghe settimane i giornali costruiscono la storia ‘rosa’ di Mario La Loggia amante della moglie del commissario Tandoy, Lelia Motta. Una storia inventata a tavolino per mettere in cattiva luce la famiglia La Loggia e, segnatamente, Giuseppe la Loggia, che in quelle settimane era il candidato alla presidenza del Banco di Sicilia.

La verità è che gli ‘ascari a stelle e strisce” della Dc, che hanno fatto fuori Fanfani dal Governo e dalla segreteria nazionale del Partito, non vogliono Giuseppe La Loggia alla presidenza del Banco di Sicilia.  Pensano – e non sbagliano – che La Loggia, al vertice del Banco di Sicilia, avrebbe finito per mettersi di traverso a quello che hanno in testa di combinare con la banca in mano, così come si è messo di traverso rispetto alle ruberie della Sofis.

Alla fine l’avranno vinta i democristiani ‘ascari’ degli americani: quando avranno la certezza che la candidatura al Banco di Sicilia di Giuseppe la Loggia è tramontata, a sceneggiata del professor Mario la Loggia mandante del delitto Tandoy si scioglierà come neve al sole. Mario La Loggia tornerà al suoi mestiere di primario dell’ospedale psichiatrico di Agrigento con tante scuse, mentre al Banco di Sicilia e alla Regione la Dc degli ‘ascari’ americani e il Pci ne combineranno di tutti i colori.

Noi non siamo per partito preso contro La Cavera e Macaluso. Ma quello che hanno combinato questi due signori va detto, anche se la storia ‘officiale’ continua in parte a nasconderlo.

La tesi di La Cavera sulla nascita di un’imprenditoria siciliana autonoma verrà affondata dagli stessi imprenditori siciliani di quegli anni che – con l’eccezione dell’esperienza di Catania – resteranno poco propensi a rischiare e molto legati alla ‘mammella’ della Regione (quanta somiglianza con Confindustria Sicilia di oggi!).

Dc e Pci, all’insegna del consociativismo, gestiranno la ‘regionalizzazione’ delle miniere di zolfo siciliane. I proprietari di molte miniere di zolfo – aiutati dal consulente d’accezione, avvocato Vito Guarrasi, personaggio molto legato alla sinistra – sbologneranno alla Regione le miniere siciliane rese improduttive dalla concorrenza di altri Paesi.

Saranno anni di immani sprechi di denaro pubblico, di ruberie e di corruzione politica e sindacale. Tutti fatti, in buona parte documentati, ‘pilotati’ dai politici che dicevano che Giuseppe La Loggia era nella mani dei grandi monopoli. In realtà, il vero monopolio della corruzione, per almeno un decennio, lo eserciteranno la Dc, il Pci e anche il Psi con la ‘regionalizzazione’ delle miniere di zolfo.

Sempre per la cronaca, i poteri forti che hanno scalzato Fanfani, qualche anno dopo – precisamente nell’ottobre del 1962 – uccideranno anche il presidente dell’Eni, Mattei, non si sa se manomettendo il motore dell’aereo personale o piazzando una bomba.

Per decenni la tesi ufficiale sarà quella di un ‘incidente aereo’. Uno dei pochi democristiani che metterà in dubbio la tesi dell’incidente, lasciando chiaramente intendere che si è trattato di un assassinio, sarà proprio Fanfani.

Degli anni successivi, di La Loggia non sappiamo molto. A parte che sarà deputato nazionale della Dc, eletto sempre in Sicilia, fino al 1983. Ricoprirà, per anni, la carica di presidente della Commissione Bilancio della Camera dei deputati. Poi, quando non sarà più parlamentare, sarà il presidente della Zecca dello Stato.

A noi, in questa sede interessa parlare di Giuseppe La Loggia autonomista e protagonista di una stagione politica ricostruita a colpi di menzogne. Per smentire tanti luoghi comuni. E per ristabilire un po’ di verità. Ci siamo riusciti? Non lo sappiamo. Almeno ci abbiamo provato.


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