Marco Campione è stato arrestato nell'ambito di un'indagine sulla gestione di Girgenti Acque. Nel suo passato c'è una parentesi ai vertici dell'azienda di Filippo Salamone, tra i pilastri del sistema corruttivo che metteva d'accordo mafia, politici e uomini d'affari
Le scalate da Campione nell’imprenditoria della Sicilia L’ingresso nella ditta al centro del tavolino degli appalti
Si trattasse di inerpicarsi tra le montagne, potrebbe ambire a un posticino nell’olimpo degli alpinisti. Con le scalate di Marco Campione, però, l’orografia non c’entra nulla, nonostante il passo svelto che ha contraddistinto la propria carriera. A pochi mesi dal 60esimo compleanno, l’imprenditore agrigentino è finito al centro della maxi-inchiesta Waterloo che per amicizie equivoche con uomini delle forze dell’ordine e della politica, accessi abusivi ai sistemi informatici, favori di vario tipo ricorda un po’ il mondo di Antonello Montante. Il nome di Campione da quasi 15 anni è legato a Girgenti Acque. La società, al centro di mille polemiche per la gestione del servizio idrico nell’Agrigentino, nel 2018 è stata raggiunta dall’interdittiva antimafia e dalla risoluzione del contratto per inadempienze. Anche se finora l’Assemblea territoriale idrica, l’ente politico chiamato a trovare un’alternativa, non è riuscita a superare lo stallo.
Quella di Girgenti Acque è la storia più nota tra quelle che hanno visto Campione protagonista. Nata nel 2007, poco dopo l’aggiudicazione della gara per l’affidamento trentennale del servizio, la società nel giro di cinque anni è finita nelle mani del gruppo Campione. Una scalata dal 5,50 al 51 per cento, dovuta anche alle disavventure degli altri soci, come nel caso di un’impresa costretta a tirarsi fuori perché accusata di essere vicina al clan camorristico dei Casalesi. «A inizio 2012, primo azionista con il 51 per cento, Campione diventa il signore assoluto del servizio idrico», hanno scritto i magistrati nel decreto di fermo. A cui è seguita la convalida e la conferma da parte del gip Francesco Provenzano della misura cautelare in carcere.
Tuttavia, l’esperienza più significativa nella parabola dell’imprenditore, capace di costruire un impero partendo dall’attività di commerciante del padre, va rintracciata a metà degli anni Novanta. È l’estate del ’96, quando Campione entra nella compagine di una delle società più potenti e discusse del tempo: la Impresem. Tramite la Giuseppe Campione spa, costituita sei mesi prima, si presenta nell’assemblea straordinaria dei soci di Impresem dichiarando di volere acquistare il 20 per cento del pacchetto azionario, proprio in concomitanza della deliberazione dell’aumento di capitale sociale da cinque a dieci miliardi di lire. In quell’occasione Campione fece presente di essere in grado di versare 2,7 miliardi. Agli investigatori che avranno modo di incontrarlo più volte nel corso degli anni, l’imprenditore ha motivato la scelta spiegando di avere avuto all’epoca «alcuni miliardi da parte». Di Impresem Campione viene nominato prima consigliere, per poi diventarne vicepresidente l’anno dopo, quando la società cambia denominazione in Tecnofin Group spa.
Per capire l’importanza di questa storia bisogna soffermarsi su cosa è stata Impresem nella storia della Sicilia. Padrone indiscusso della società era Filippo Salamone, potentissimo imprenditore agrigentino, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Salamone è stato uno dei piedi del tavolino che sotto la regia di Angelo Siino – mafioso legato alla famiglia Brusca, massone e da decenni collaboratore di giustizia – gestiva la spartizione degli appalti in Sicilia. Una divisione che assicurava benefici economici agli imprenditori facenti parte del cartello, ai politici coinvolti e, chiaramente, a Cosa nostra. «La Impresem costituisce un pezzo della storia economico-criminale siciliana. La società fu protagonista di primo piano nella Tangentopoli siciliana», ricordano gli inquirenti.
Campione, sentito in passato su questo capitolo della sua vita, ha dichiarato che l’accordo con Salamone era stato chiuso nel salotto di quest’ultimo, a Roma. L’ingresso del futuro padrone di Girgenti Acque in Impresem arriva in un momento particolarmente caldo. Nel 1996, Salamone era a conoscenza di essere indagato a Messina per una serie di appalti sospetti, mentre l’anno successivo sarebbe stato arrestato per disposizione del tribunale di Palermo in un’inchiesta che coinvolgeva anche mafiosi del rango di Totò Riina, dei fratelli Brusca e di Michelangelo La Barbera, oltre che altri imprenditori. L’ascesa di Campione ai vertici della Impresem – nel frattempo diventata Tecnofin Group – ha portato gli inquirenti ad affermare che «a soli 34 anni aveva la disponibilità concreta di due miliardi e settecento milioni di lire, poteva gestire in prima persona operazioni societarie per tali ingenti somme, oltre a potersi sedere con ruoli di primo piano nel luogo ove allora si spartivano illecitamente gli appalti».
A insospettire i magistrati è l’incrocio temporale tra i successi personali di Campione e i problemi di Salamone con la giustizia. Molte operazioni sarebbero state fatte per evitare misure di prevenzione nei confronti di Salamone. Un ruolo nel rinsaldare la solidità delle imprese di Salamone lo avrebbe avuto anche Pietro Di Vincenzo (non indagato), l’ex presidente di Confindustria Caltanissetta pre-Montante, a cui è stato confiscato un patrimonio ingentissimo perché ritenuto contiguo alla mafia. Lo stesso anno in cui Campione entra in Impresem, Di Vincenzo acquisisce metà delle quote di Tecnofin srl, la finanziaria che la gestiva. Per gli inquirenti, anche la presenza dell’imprenditore nisseno nelle società in cui Salamone aveva i propri interessi avrebbe avuto l’effetto di evitare provvedimenti restrittivi dell’autorità giudiziaria. Questo, perlomeno, fino a quando i problemi di Di Vincenzo non diventano d’intralcio. In questa fase, siamo nel ’98, Campione diventa amministratore unico di Tecnofin Group e consigliere della finanziaria Tecnofin srl, la società considerata «cassaforte» di Salamone. «Campione veniva individuato, da quegli imprenditori coinvolti in procedimenti per associazione mafiosa, come uomo in grado di tutelare i loro patrimoni», si legge nelle carte dell’indagine Waterloo.
Tale tutela, tuttavia, rischia di saltare quando nel ’99 la Dda di Palermo chiede il rinvio a giudizio di Campione, nell’ambito di un’inchiesta che coinvolgeva tra i tanti anche Salamone e Alessandro Musco, l’ex consigliere del presidente della Regione Rino Nicolosi. Nel mirino dei magistrati era finita la gestione di alcuni presunti fondi neri, creati in Svizzera, per finanziare i politici siciliani. In particolare, a Campione veniva contestata la gestione di un conto denominato Duomo presso la banca di Lugano. Le operazioni, per gli inquirenti, erano state compiute nell’interesse di Salamone: non ancora re dell’acqua nell’Agrigentino, Campione avrebbe fatto rientrare in Italia centinaia di milioni di lire nell’interesse di Cosa nostra e con l’obiettivo di continuare a influenzare il settore degli appalti. Quel processo si chiuse per quasi tutti gli imputati con la prescrizione.