«Le regole di Cosa nostra sono sempre le stesse, non sono cambiate mai». Le rassicurazioni di Bernardo Provenzano, nero su bianco in un pizzino, suggellano il da farsi a proposito della diga di Blufi. Progettata già negli anni Sessanta, resta ad oggi un’enorme incompiuta. I lavori partono solo quasi trent’anni dopo, per un costo esorbitante che tende a lievitare e interruzioni continue. Localizzata nelle Madonie, era stata pensata per riuscire a raccogliere 22 milioni di metri cubi dell’acqua proveniente dal fiume Imera e avrebbe dovuto essere il collegamento tra la diga Ancipa e quella del Fanaco per distribuire acqua alle province di Agrigento, Caltanissetta ed Enna.
All’inizio, gli inerti necessari per la costruzione della diga vengono prelevati da quello che, di lì a poco, diventerà il parco delle Madonie. Una zona, dunque, protetta a partire da quella istituzione, che vieta di prelevare materiale nelle cave che ricadono in zona protetta. È il ’95, per far ripartire i lavori si dovranno attendere altri sei anni e la decisione di prelevare il materiale necessario in altre cave fuori dalla zona protetta. Ma ecco un nuovo stop, che arriva stavolta dal ministero dell’Ambiente, che nei carteggi del progetto non trova i dettagli necessari sulla verifica di un eventuale impatto ambientale dell’opera. Cantiere chiuso. O forse no.
Sullo sfondo di continue interruzioni e riaperture, c’è l’occhio attento di Cosa nostra, che ambisce a mettere le mani su quei costosissimi lavori per realizzare la diga. A svelarlo è il collaboratore nisseno Pietro Riggio durante il suo interrogatorio del 7 giugno 2018 con i magistrati di Caltanissetta. Tra una rivelazione e l’altra sulla strage di Capaci, il pentito racconta che «i Maranto rivendicano la titolarità della zona e quindi intendono, diciamo, espletare tutte quelle che sono le forniture, calcestruzzo, inerti, anche perché la diga necessitava di tre strati di inerti differenti, di cui sabbia, pietra, breccia – racconta -. Mentre a un certo punto viene fuori un imprenditore di Bagheria, che doveva portare sia il materiale necessario per la diga dalle cave che lui aveva a Bagheria, sia effettuare i trasporti per quanto riguardava questi lavori».
Ma è qui che la situazione si sarebbe nuovamente ingarbugliata. «Naturalmente sono sorti dei problemi abbastanza seri, abbastanza ardimentosi – dice ancora il collaboratore -, perché già si parlava di guerra, di questo, di quell’altro». Guerra tra famiglie rivali? «No no – spiega il collaboratore ai magistrati -. La guerra tra i Virga e i Maranto è altra cosa», dice. Quella sarebbe nata non per la diga, ma «per contendersi la leadership sulle Madonie. Perché i Virga si erano appoggiati a Provenzano, mentre i Maranto si erano appoggiati, diciamo, erano dell’altra ala e quindi erano invisi a Provenzano. Quindi poi li fecero fuori». Saverio Maranto, coinvolto nel blitz Black Cat di due anni fa, è stato prima condannato a undici anni e sei mesi in primo grado e poi, lo scorso aprile, assolto in appello. Mentre Antonio Giovanni Maranto, più recentemente coinvolto in un’altra operazione, è finito in carcere nel 2018 e dovrà rispondere dell’accusa di aver ricoperto il ruolo di reggente della famiglia mafiosa del vicino paese San Mauro Castelverde.
«I lavori andavano fatti dopo che l’opera era rimasta incompiuta dall’Astaldi – dice ancora Riggio -. Siamo subito dopo il giugno del 2002. Io metto carta e penna e faccio una lettera per Bernardo Provenzano che consegno, dopo che la legge, ad Agostino Schillaci di Campofranco, che aveva il contatto epistolare con lo Zio. Nella lettera io chiedo se le regole di Cosa nostra sono sempre le stesse, se le regole di attribuzione dei lavori sono sempre uguali, se dove ricadono i lavori se ne deve occupare la famiglia, salvo il diverso avviso da parte sua e che c’avrebbe fatto sapere qualche cosa in merito». Cosa che, in effetti, il padrino fa. Passa appena un mese, ed ecco arrivare una lettera con una sua risposta. Le regole sono sempre quelle, la mafia è mafia, non contempla stravolgimenti. Specie in materia di imposizioni e affari illeciti.
C’è, però, un unico monito: «Tu non devi fare il mio nome», scrive in calce il padrino latitante. «Testuale, diceva proprio “tu non devi fare il mio nome”. Allora ho elaborato, ho pensato, ho detto – si scervella Riggio – “Non devo fare il suo nome, nel senso che questa risposta non mi arriva da parte sua, quindi non prendere avvalli dicendo che me l’ha detto lo Zio». Ma qualche mese dopo scopre che il senso di quella frase inviata dal boss era piuttosto diverso.
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