Alla vigilia dell’anniversario dell’uccisione di Pio La Torre, autore della legge sui beni sottratti ai mafiosi, una riflessione della Cgil sulla gestione dei beni da parte di amministratori che «nove volte su dieci» portano al fallimento. Piastra: «Sequestro non deve decretare la fine ma segnare l'inizio del rilancio»
Le aziende confiscate al tempo della crisi Da cave ad Ati group: «Svolta o morte certa»
«Non serve cambiare la legge. Semmai, occorre applicarla alla lettera, nominando gli amministratori attingendo dall’albo nazionale e verificando che abbiano un’esperienza maturata sul campo. Altrimenti l’azienda, nove volte su dieci, è destinata fallire. La situazione ormai è drammatica». Alla vigilia dell’anniversario dell’uccisione di Pio La Torre, autore della legge sul sequestro e confisca dei beni ai mafiosi, e Rosario Di Salvo, freddati da Cosa nostra il 30 aprile del 1982, a invocare un cambio di passo sulla gestione delle aziende è il segretario Fillea Cgil Palermo, Francesco Piastra, che lancia un appello: «Le aziende confiscate vivono una situazione drammatica, arrivano spesso alla confisca in uno stato fallimentare. E se questo scenario si ripete spesso, un motivo ci sarà, non può essere legato solo alla crisi». I dati, in effetti, parlano chiaro, con un aumento del numero dei procedimenti di prevenzione: nel 2014, su 185 procedimenti nel distretto Isole, 147 si sono registrati solo a Palermo.
Una situazione drammatica che spinge Piastra a invocare una nuova strategia e a spingere per l’introduzione della figura dell’«amministratore–manager, in grado di rilanciare l’azienda e darle nuovo impulso». Perché, spesso, la confisca coincide con la messa in liquidazione e il licenziamento dei lavoratori. Un pericolo che minaccia da vicino tante aziende che operano nel capoluogo siciliano: come Ati Group (gruppo Aiello), Tecnis, l’Immobiliare Strasburgo e le cave che stanno vivendo un momento molto difficile, anche come riflesso della crisi che ha travolto l’edilizia. Tra queste, ad esempio, ci sono l’Acri di Marineo con 50 dipendenti, quelle della famiglia Buttitta a Bagheria – che gestisce tre siti e impiega 35 dipendenti -, la Selmi a Borgetto con 20 operai (in realtà si tratta di un centro betonaggio) e a Montelepre la Medi.Tour (20 unità). Tutte aziende sotto sequestro che, seppur in maniera diversa, vivono profonde criticità. Attualmente le cave Buttitta, che venivano da un lungo periodo di difficoltà, stanno lavorando e sembrano esserci buone prospettive: hanno, infatti, ottenuto l’appalto per rifornire l’azienda Toto Costruzioni che sta realizzando il raddoppio ferroviario Cefalù-Ogliastrillo-Castelbuono.
«L’Acri, invece, – spiega Piastra – non attraversa un buon momento. Oltre a produrre calcestruzzo si occupa di stoccaggio di materiali inerti e le attività sono in calo. L’amministratore giudiziario presenterà a breve la richiesta di cassa integrazione ordinaria per i lavoratori». Anche per la Meditour il futuro che si profila è tutt’altro che roseo: i dipendenti sono in cassa integrazione. Un po’ meglio la Selmi: seppur sotto sequestro, gli operai stanno lavorando anche se non a pieno regime. Un effetto della crisi economica ma anche un riflesso dell’amministrazione giudiziaria: nella maggior parte dei casi, infatti, le miniere sono sotto sequestro perché i proprietari sono ritenuti vicini ai mafiosi o, in alcuni casi, ritenuti tali. «Per quanto riguarda le cave – chiarisce – la situazione è determinata per lo più dalla crisi del settore. Una maggiore complessità è richiesta, invece, dalle aziende edili. Ad esempio per la Ati Group la situazione è molto complicata. Le società sono arrivate decotte e il futuro appare incerto». A fine agosto, infatti, scade la cassa integrazione straordinaria per i 130 lavoratori, tra edili e metalmeccanici, che di recente hanno costituito una cooperativa: al momento è in corso una trattativa con l’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia, perché la cooperativa riceva in dote delle commesse per una start-up di due anni. Ma proprio nel caso dell’impresa del gruppo Aiello, forse, si poteva fare di più dopo il sequestro, «ricercando nuove commesse. Dal 2013, invece, l’azienda non ha più partecipato a nessuna gara. Non vorrei farne un caso, perché il problema è generale: manca una politica industriale delle aziende che stentano a rimanere competitive». Un altro esempio è quello dell’immobiliare Strasburgo, in liquidazione su richiesta dell’Agenzia: «Si è deciso di destinare beni a uso sociale cedendoli al Comune di Palermo – sottolinea il sindacalista – ma non si possono lasciare a casa i 33 dipendenti».
Per condurre un’azienda serve spirito imprenditoriale, intercettare appalti pubblici e privati e sapere dare un impulso nell’attivare le gare. Per Piastra, invece, spesso accade il contrario: vengono nominati avvocati e commercialisti senza alcuna esperienza in quel settore, e magari «girano sempre gli stessi nomi, magari di chi ha già fallito mentre non dovrebbero più essere presi in considerazione». E avverte: «Dopo il clamore sollevato dall’inchieste che ha travolto la sezione delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, non vorrei si invocassero nuove leggi. La normaiva c’è e prevede che gli amministratori giudiziari siano nominati attingendo dall’albo, ma in passato non è stato così. Ora bisogna cambiare strategia: il sequestro non deve decretare la morte dell’impresa – conclude – ma deve segnare l’inizio di un percorso di risanamento per l’azienda per poter continuare a produrre».