L’arte di raccontare e il mestiere di diventare uomini

Li vediamo crescere, quotidianamente. Li ritroviamo a lezione, imballati per la timidezza, mentre rimuginano un intervento, una domanda che poi rimanderanno giù. La mattina dell’esame si presentano, con il volto segnato dopo una notte da Getsemani, e c’è sempre qualcosa che non va bene: l’emozione, il docente sadico, un collega premiato troppo. Si indignano, alcuni, altri scrollano le spalle. Spesso ciondolano per i corridoi della Facoltà: discutono, prendono cotte, litigano. Diventano – lentamente, impercettibilmente – adulti, mentre il filo esile delle loro emozioni si fa  corda robusta, alzaia. E accade, a volte, nel mito fordista che questa università impone – produrre laureati, il maggior numero possibile, nel minor tempo possibile – di perdere il senso del percorso umano di questi ragazzi. Di rigettare come una fastidiosa zavorra l’unica domanda che davvero importa: e dopo, cosa li aspetta?

Questa, in principio, doveva essere una garbata presentazione. Una diligente relazione su un lavoro compiuto durante un laboratorio, uno dei tanti, Il reportage tra giornalismo e narrativa. Avrebbe dovuto stilare un rendiconto puntuale delle ore di lavoro, degli obiettivi realizzati, di quelli mancati. Poi presentare discretamente la rubrica che da tale lavoro nasce: La città invisibile, che vedrete scorrere di giovedì in giovedì per tutta l’estate su questo giornale. Una raccolta di reportage sulla città di Catania: i suoi figli meno coccolati, le sue ferite frettolosamente suturate e sottratte alla vista, le sue voci soffocate, o solamente inascoltate per un vizio d’abitudine. Avrebbe dovuto, infine, intonare una moderata soddisfazione per l’attività svolta, e augurarsi – come da rito – che l’esperienza potesse proseguire per l’anno prossimo.

Tutte cazzate, con rispetto parlando. Perché, una volta tanto, qualche pensiero deve essere pure speso per loro, per i nostri ragazzi: non solo per riconoscere il merito di una crescita costante e silenziosa. Anche per chiedersi, in onestà, a cosa servirà loro questa esperienza. Hanno imparato che si può domare il linguaggio, irrobustire lo stupore e le emozioni dei loro vent’anni attraverso un uso cosciente della parola. Limando l’esuberanza degli aggettivi, smussando la legnosità di certe frasi rituali. Hanno mosso, faticosamente, i primi passi di un percorso: risentendosi per delle correzioni forse troppo aspre, difendendo i termini che avevano scelto, accettando di riscrivere lo stesso pezzo quattro, cinque, sei volte, rifuggendo alla tentazione di fabbricarsi alibi. Hanno imparato a non essere premiati per lo sforzo, ma solo per la qualità dei loro articoli. Qualità su cui voi stessi giudicherete, leggendo. Qualità che vibrerà forse come una corda stonata, in questa città assonnata, abituata a tacere: e avvezza, nel proprio silenzio, ad accordarsi splendidamente con la mediocrità del  quotidiano locale.

Resta dunque, al di là dell’orgoglio e della commozione con cui li abbiamo seguiti, la preoccupazione di quanto servirà loro questa capacità acquisita. Il sospetto che, forse, sarebbe stato meglio insegnar loro a cantare le priapesche virtù o i trionfi amatori del signorotto di turno – come leporelli o, persino, come tonizermi qualunque – per inserirli più opportunamente in lista d’attesa per il mondo del lavoro. Insegnare loro l’arte del silenzio, del pudore e non quella della parola: formare discreti, appetibili pennivendoli.

È che – adesso, forse, lo possiamo confessare – non è mai stato nelle nostre intenzioni sfornare, malinconicamente, giornalisti disoccupati. Volevamo, innanzitutto, provare a formare uomini liberi. Perché abbiamo creduto, sempre creduto, nella forza rivoluzionaria della parola. Nella capacità di resistere, attraverso essa, alle verità precostituite, ai silenzi pelosi. Perché riconosciamo nelle pulsazioni vitali della nostra lingua un continuo atto di resistenza contro la mediocrità del mondo che ci circonda. Perché crediamo che imparare a definire la realtà che ci sta attorno – da Adamo in poi, dalla Genesi in poi –  sia un modo per prendere coscienza di essa. E per dominarla.

In principio era il Verbo, recita l’incipit di uno dei best seller della letteratura di tutti i tempi. E di quest’affermazione, riconosciamo – come Sepúlveda – una verità filologica, prima ancora che teologica: la parola come atto di fondazione della realtà, per cui le cose esistono solo dal momento in cui sono nominate. Crediamo che la tecnica dello scrivere e del raccontare sia uno dei modi attraverso cui imparare il mestiere di vivere. Vivere nell’unico modo che riconosciamo possibile: con gli occhi aperti, con i sensi desti. Vivere da uomini liberi. Per questo dei nostri ragazzi siamo fieri. Saranno meno indifesi di fronte al bombardamento mediatico di isole, case, fattorie, salotti patinati nella forma, finti nei contenuti, fedeli a se stessi – e alla propria volgarità – nel linguaggio. Saranno più atti a resistere, perché «raccontare è resistere». Così ci è stato insegnato, e così abbiamo tentato di insegnar loro.

Già: c’è sempre, dopo ogni segmento di cammino percorso, l’abitudine di tirare il fiato, voltarsi indietro, e guardare, con soddisfazione, il punto da cui si era partiti. Più lontano il punto, più pastosa la soddisfazione. Così anche per chi vi scrive. Credere, sperare di aver fatto crescere degli uomini e, poi, rivolgere il pensiero a Giuseppe Fava. E a Claudio, Miky, Riccardo, Gianfranco, Sebastiano. Ricordare, come ogni volta, i compagni e l’esperienza de I Siciliani. Non come un tributo, ma semplicemente per l’esigenza di tracciare una geometria che restituisca il senso di un percorso comune: con la certezza che nulla, di quello che è successo, è accaduto invano, se dopo ventun anni ancora cova la voglia di scrivere, il rifiuto di tacere. E nulla è, infatti, accaduto invano, se alla fine è pensando al Direttore che anche questo sforzo riacquista un suo significato. Questo, come ogni altro.


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