L’arte di essere fragili, la paura che si declina in parola e in poesia

Nel 1991 il dottore J. Andrew Armour scoprì che nel cuore sono dispersi circa 40mila neuroni, i cui
assoni risultano direttamente collegati a una particolare ghiandola posta alla base dell’encefalo,
l’ipofisi, responsabile degli ormoni che regolano lo stato d’animo e gli sbalzi di umore.
Quando si ragiona col cuore, quindi, non sempre si abbandonano gli impulsi razionali; al contrario,
il più delle volte, lasciarsi guidare dai sentimenti è forse la scelta più ponderata tra la vasta gamma
delle opzioni possibili. Ed esiste un’arte nello specifico, una tra tante in particolare, che appare al
contempo legata sia alla ragione che all’emotività dell’individuo pensante: è l’arte di essere fragili,
l’arte di sbagliare con filosofia, limite e risolutezza, paura che si declina prima in parola, poi in
poesia
.

Si dice fosse il maestro della paranoia, Giacomo Leopardi, perso com’era nella finitudine che ci
accomuna. L’autore nacque a Recanati il 29 giugno del 1798 da una famiglia nobile in decadenza,
che gli assicurò un ottimo livello di istruzione. Già da piccolissimo, Leopardi mostrò subito una
notevole predisposizione verso l’apprendimento intersezionale, incoraggiata anche dalla chiusura
interiore – selettiva ma non categorica – che il giovane usò come autodifesa per proteggersi dalle
cattiverie di un mondo improntato alla superficialità.
Ciò che è bello è buono e ciò che è buono è bello, o no?

Curvo e cagionevole di salute, il poeta non viene ricordato come piacente o particolarmente
grazioso, tutt’altro. Il suo è un cliché intrinseco, l’espressione lampante del concetto trito e ritrito
di una bellezza interiore che solo di rado è possibile estrapolare.
Uomo integro e sensibile, Leopardi provò a farsi strada nella realtà, collezionando un rifiuto dopo
l’altro eccetto che in poche, pochissime occasioni, in compagnia di poche, pochissime persone.
L’autore morì a Napoli nel 1837 assistito dall’amico Ranieri, a causa di una violenta pericardite.
Di lui rimane una cospicua raccolta di poesie e opere letterarie di vario genere, di cui si
menzionano in particolar modo i canti, gli Idilli e lo Zibaldone. 

«Il mio Leopardi è un instancabile cacciatore di bellezza, e il suo lascito culturale ne è la prova», ha dichiarato lo scrittore Alessandro D’Avenia durante un’intervista tenuta quest’anno per Libreriamo, articolo a cura di Lucia Antista.
Classe 1977, D’Avenia non è soltanto un autore da bestsellers pluripremiati: nel 2020 il suo nome
compare tra i primi cinquanta insegnanti più apprezzati in Italia. In stampa sul Corriere della Sera,
nei trafiletti di Ultimo banco, D’Avenia pubblica settimanalmente articoli giornalistici riguardanti in
primo luogo l’ipersensibilità emotiva e le scuole, ma snocciola con discreta frequenza anche il
tema del patrimonio artistico e culturale italiano, purtroppo in continua svalutazione.
Tra le opere più vendute dall’autore, è bene citare l’ultimo romanzo in uscita, L’appello, pubblicato
lo scorso anno da Mondadori; si raccomanda poi, a utenti di tutti i tipi e di tutte le età, anche la
lettura di Ogni storia è una storia d’amore (2017), Ciò che inferno non è (2014), Cose che nessuno
sa
(2011) e Bianca come il latte, rossa come il sangue (2010).

L’arte di essere fragili. Nessuno di noi è un segmento, siamo tutti un reticolato indefinito: iniziamo la nostra vita con la
presunzione di percorrerne il percorso in linea retta, ma capita che prima o poi sbattiamo contro la
retta di qualcos’altro, meglio: di qualcun altro, e quel qualcun altro, senza farlo di proposito,
collide con la nostra strada per poi proseguire la propria. Dopo lo scontro, entrambe le parti
continuano a percorrere la stessa direzione su cui stavano camminando in precedenza, ognuna per
conto suo. Però, al momento dell’impatto, le nostre vite hanno smesso di essere segmenti a sé
stanti, e si sono trasformate in un incrocio che ci ha cambiati per sempre. Un incrocio alla volta
viene fuori un reticolato e alla fine, presto o tardi, ci scopriamo tutti connessi da una sorta di
inevitabile incidenza reciproca. Incidenza che va oltre il tempo e lo spazio, oltre qualsiasi valore
fisico, qualsiasi grandezza non dipenda inderogabilmente dall’emotività umana.
Da ragazzo, D’Avenia ha sbattuto coi testi di Leopardi.
E noi che siamo lettori dell’uno e dell’altro, nel bene o nel male, abbiamo incrociato entrambi
.
L’arte di essere fragili: come Leopardi può salvarti la vita è una sorta di romanzo epistolare che
però non rispecchia appieno le caratteristiche del genere di appartenenza; sullo stile di scrittura
persiste l’impronta della saggistica moderna, e si mantiene costante il tono confidenziale
tradizionalmente affidato al diario; il libro è come scritto a quattro mani: uno dei due autori è
ancora in vita, l’altro non morirà mai.
L’immagine di copertina, scattata e curata da Marta D’Avenia (sorella di Alessandro), ha
surclassato le proposte degli editor della Mondatori proprio per la sua apparente delicatezza: una
farfalla, emblema della caducità, si poggia su una mezzaluna altrettanto labile, perché destinata a scomparire con la stessa alba che potrebbe non sorgere di nuovo, prima che l’insetto esaurisca il
proprio tempo.
Il titolo, forse un po’ pretenzioso (salvarti la vita, addirittura), allude con chiarezza all’esperienza
personale dell’autore.
Citando il testo: “Leggere ciò che un altro uomo ha scritto è entrare in
relazione epistolare con lui: lui ci scrive, noi, a distanza di migliaia di ore, rispondiamo. La poesia è
un messaggio in bottiglia, che vive della speranza di un dialogo differito nel tempo”. 

Oltre la vita, al di là della morte.
Di fatto, affogata in un mare di retorica e frasi motivazionali, la personalità di Leopardi viene
esaminata da cima a fondo attraverso le opere che il poeta ci ha lasciato, divise in quattro tappe
fondamentali: adolescenza, maturità, riparazione e morte. Morte, o arte di rinascere.
A lungo andare – forse – il tono moraleggiante della prosa potrebbe risultare un attimo eccessivo,
a tratti pieno di belle parole ma sostanzialmente vuoto. A tratti.
Quanto affermato non vuole necessariamente essere una critica, anzi: quando le belle parole non
salvano il mondo, almeno ci provano. Se la scorrevolezza del testo ne risente in modo negativo,
quantomeno è per una buona causa.
Non sono rari gli agganci alle esperienze raccontate dei ragazzi con cui D’Avenia è venuto a
contatto nel corso della propria carriera d’insegnamento. E così, tra una testimonianza e uno
sguardo oltre la siepe, ci accorgiamo che Leopardi non ci è poi troppo distante
, che il pessimismo è
giusto una leggenda metropolitana, e che la forza – così come la intendiamo – non è altro che un
sinolo di insufficienze. Valorizzate alla giusta maniera.

Marianna Romeo

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