Si chiama Lotta civile il libro di Antonella Mascali presentato martedì ai Benedettini. Lautrice, giornalista di Radio Popolare - Milano, è catanese. E racconta storie umane che partono dal dolore per approdare allimpegno
Lantimafia e la ricerca della felicità
Un libro utile e al tempo stesso bello, un racconto sobrio fatto di storie umane che parla di dolore, ma anche di felicità. Sono alcune delle definizioni usate per presentare “Lotta civile contro le mafie e l’illegalità”, il libro di Antonella Mascali – giornalista del’emittente milanese Radio Popolare – di cui si è parlato martedì ai Benedettini.
L’autrice lavora a Milano, ma è catanese. E un momento di svolta della sua vita è collegato proprio alla storia che apre il libro, quella dell’assassinio di Giuseppe Fava. Quando, prima ancora che la magistratura facesse luce sul delitto, un gruppo di studenti catanesi scrissero per primi, su una targa di legno, che quello era stato un delitto di mafia. Tra coloro che portarono la targa sul luogo dell’omicidio c’era anche Antonella Mascali, allora giovanissima studentessa dello Spedalieri. A ricordarlo è stato Gianfranco Faillaci, oggi coordinatore della redazione di Step1, ma che, venticinque anni fa, proprio come l’autrice del libro, era tra gli studenti che si strinsero intorno alla redazione dei Siciliani. “Le parole scritte su quella targa di legno – ha ricordato Faillaci – sono oggi scolpite sulla pietra, e scolpite anche nelle sentenze giudiziarie. Ma i venticinque anni che ci separano da quel delitto sono stati anni difficili, fatti anche di sconfitte e di abbandoni. Antonella Mascali, e questo libro lo dimostra, non si è mai dimessa da siciliana o da catanese, e soprattutto non si è dimessa da giornalista. Per farlo, paradossalmente, ha dovuto andare a lavorare a Milano. E questo rapporto difficile con la città segna ancora la vita dei giovani che si formano qui, ma che spesso metteranno a frutto i propri talenti soltanto approdando altrove”. Faillaci, presentando il volume, ha sottolineato che in esso c’è “un percorso che racconta il dolore. Questo libro ha il raro pregio di raccontarlo con sobrietà. Ha il merito di aver fatto del dolore non uno spettacolo, ma la prima tappa di un lungo percorso, che alla fine approda all’impegno, all’antimafia sociale”.
Luciano Granozzi inizia la sua lettura scorrendo la cronologia dei morti di mafia in appendice al volume. “Ci sono vuoti inspiegabili, intere fasi in cui le vittime della mafia non sono state neppure registrate, ciò mostra l’importanza del lavoro di Libera come archivio della memoria” e, citando un’osservazione di Salvatore Lupo, aggiunge: “è proprio vero che solo l’antimafia rende visibile la mafia”. L’attenzione si sofferma poi sul metodo seguito dall’autrice nel selezionare le testimonianze: “Non si tratta di eroi, beninteso. Semmai, volendo impiegare questo termine abusivo, da un lato abbiamo gli ‘eroi involontari’, chi è stato ucciso per l’ostinazione con cui non ha voluto smettere di compiere bene il proprio lavoro, dall’altro le storie di ‘eroi per caso’, di chi si è trovato casualmente nel posto sbagliato al momento sbagliato, come Silvia Ruotolo, o come Barbara Asta e i suoi figli”. Ma prosegue osservando che Antonella Mascali ha posto al centro i vivi, quelli che hanno fatto della militanza all’interno di ‘Libera’ lo strumento per sottrarsi alla forbice tra il lutto come rassegnazione e l’imbarazzante ritualità delle commemorazioni ufficiali. Il professore ha concluso proponendo una riflessione sul senso del termine ‘educazione alla legalità’. “Si tratta di una formula ormai dilagante – ha detto – che rischia di suggerire un’interpretazione troppo edulcorata. L’educazione antimafia va proposta soprattutto come affermazione di diritti e necessità di ribellarsi contro molte forme di pretesa normalità. Poiché mafia vuol dire profonda compenetrazione tra criminalità, economia, politica e pezzi delle istituzioni, non si può fare a meno di intendere la cosiddetta ‘educazione alla legalità’ come battaglia culturale per una nuova politica”.
Dopo i primi due interventi, la parola passa ad Antonella Mascali. Che non nasconde la propria emozione: “Catania è la mia città e lo sarà per sempre – ha detto l’autrice – anche se per fare il mio mestiere sono dovuta andare via. E il mio maestro, un maestro che non ho avuto la possibilità di conoscere, sarà sempre Giuseppe Fava. Il primo capitolo del libro, dedicato a lui, è stato il capitolo più difficile da scrivere, quello che ho scritto per ultimo”.
La Mascali non elude il tema dello stato dell’informazione a Catania. “Mi fa molta rabbia – sottolinea – il fatto che venticinque anni dopo il 5 gennaio ancora non ci sia un quotidiano alternativo a quello di Ciancio. Se si pensa alla vicenda delle televisioni catanesi, si può anzi dire che la situazione sia peggiorata”. Eppure nel suo intervento non c’è spazio per la rassegnazione. “Rispondendo al professor Granozzi, dico che quella per la legalità è senza dubbio una battaglia politica. Ma nel senso alto del termine. Questa battaglia va fatta anche ponendo in primo piano il problema del pluralismo dell’informazione. Il libro l’ho scritto affinché non si dimentichi e affinché il lettore possa prendere spunti per un possibile impegno. Del resto, è proprio quello dell’impegno civile il filo comune che tiene insieme tutte queste storie. Non è un caso se ho parlato tanto delle vittime ‘eccellenti’ quanto delle vittime ‘casuali’. L’ho fatto perché la gente capisse che si può morire di mafia anche se pensiamo che la mafia non c’entri nulla con la nostra vita. Ma questo libro delinea un percorso, che parte dal lutto e sfocia nell’impegno civile, e nella memoria, che sta alla base della lotta per la legalità”.
Anche Elena Fava comincia dal rapporto difficile con la città, a partire dalla sua scelta di rimanere: “se sei parente di una vittima di mafia hai due possibilità: o vai via e ti rifai una vita, o rimani; e se rimani, puoi solo scegliere tra adattarti alla quotidianità o lottare”. Rimanere a lottare è difficile, anche perché sono in molti a voltarsi dall’altra parte: “mio padre era un intellettuale, tollerato finché si è limitato a scrivere per il teatro e il cinema, o a dipingere i suoi quadri, ma troppo scomodo nel momento in cui fondò un giornale e iniziò ad affrontare un tema che era sotto l’occhio di tutti, al punto che nessuno sembrava vederlo: quello del perfetto equilibrio tra l’imprenditoria locale e il potere mafioso. Alla sua morte, molti catanesi pensarono: -Ma chi glielo ha fatto fare? Io non c’entro, peggio per lui e per quelli come lui”. Erano gli anni in cui “la mafia non esiste a Catania” ha continuato Elena. La morte di Giuseppe Fava rimane una ferita aperta: “abbiamo voluto far nascere la Fondazione Fava non solo per far conoscere in tutti i suoi aspetti l’opera letteraria e giornalistica di Giuseppe Fava, ma per salvaguardare questo pezzo di storia della città”.
Dario Montana, fratello del commissario Beppe Montana e responsabile catanese di “Libera”, parla del lavoro di Antonella Mascali come “di un libro sulla ricerca della felicità. È una raccolta di saggi che parlano di giustizia senza ridursi alla giustizia processuale. Molti dei familiari delle vittime non hanno avuto neppure un processo per i loro cari, ma la loro richiesta di giustizia non ha mai sconfinato nella vendetta, nessuno di loro ha mai invocato la pena di morte per gli assassini. In molte delle storie raccontate in questo libro, anzi, i familiari delle vittime raccontano di essere entrati nelle carceri, di avere conosciuto e incontrato giovani detenuti. Il libro di Antonella parla di legalità, ma intesa in senso sociale, di cambiamento. E la legalità a volte può avere come fondamento la disobbedienza”. Delle tante storie di questo libro, secondo Montana, “le più importanti sono proprio quelle meno conosciute. E sono tutte storie che hanno a che fare con la felicità perché le famiglie rovinate dalla mafia, perse, sfaldate, hanno fondato una rete solidale con altre famiglie, in nome della ricerca della giustizia e attraverso l’impegno civile”. Montana parla anche di Catania, delle polemiche succedute alla puntata di Report: “è stata una trasmissione splendida. Anche se è singolare che molti catanesi ritengono vero solo ciò che viene detto in televisione. Non è possibile che per accorgersi di certe cose ci sia bisogno che le dica Report”. Una battuta, infine, Montana la dedica ai libri sulla mafia. “Ne escono molti. In un certo senso troppi. I giornalisti si sono messi a scrivere libri perché sui giornali di questi temi non si parla abbastanza”.
A concludere il giro degli interventi Agata Pasqualino, di Addio Pizzo Catania: “Tra le storie trattate nel libro sono due quelle che sento più vicine: una è quella di Fava, l’altra è quella di Libero Grassi. Quelli che hanno la mia età si sentono spesso orfani di memoria. Tra i giovani di Addio Pizzo c’è molta sete di ricerca del passato. A volte, rileggendo gli scritti di Fava, provo rabbia per la loro attualità, a volte invece penso che Fava non è morto. Si dice spesso che la lotta per la legalità sia una lotta per i nostri diritti. Io penso però che debba essere anche una lotta per i nostri doveri”. E un momento di questa lotta sarà la manifestazione “Catania non dormire, apri gli occhi per non morire”, il corteo antimafia organizzato per il 16 Maggio e che partirà alle ore 16 da piazza Dante.
A conclusione dell’incontro ancora un intervento dell’autrice, che ricorda che “uno dei modi per non dimettersi da catanesi è quello di contribuire nel nostro piccolo alla lotta per la legalità”. A coordinarlo è stato il professor Antonio Pioletti. Che ha scelto di introdurlo nel modo più semplice e significativo: scorrendo i nomi delle vittime della mafia da cui parte il libro di Antonella Mascali: Giuseppe Fava, Rocco Chinnici, Beppe Montana, Roberto Antiochia, Marcello Torre, Silvia Ruotolo, Libero Grassi, Vincenzo Grasso, Barbara Asta e i figli Giuseppe e Salvatore, Mauro Rostagno, Francesco Marcone e Renata Fonte.