Albero del paradiso, noce cattiva, arbanazzo. Sono tanti i nomi usati per indicare l’ailanthus altissima, una delle piante più diffuse nel territorio siciliano, il più delle volte nell’incosapevolezza generale. Capace di raggiungere anche i 15 metri di altezza, l’ailanto ha origini cinesi – dove veniva usato per curare tanto le malattie mentali che la calvizie – ed è stato introdotto a metà Ottocento in Italia dove è stato coltivato per l’allevamento di un particolare lepidottero utilizzato per la produzione della seta. Oggi però rappresenta una minaccia per diverse piante autoctone che, meno capaci di competere, si trovano costrette a soccombere.
«Quello degli ailanti rappresenta un problema serissimo ma sottovalutato – spiega l’agronomo Corrado Vigo -. Si tratta di una specie che si propaga da sola e con un’elevata velocità. Sarebbe da considerarsi a tutti gli effetti un problema, che peraltro non interessa soltanto la Sicilia, ma tutto il Paese».
L’esperto spiega come la capacità di propagazione della pianta riguarda «sia il punto di vista radicale che aereo» con il risultato che «grazie alle sue radici pollonanti invade tutto il territorio lasciato libero dalle altre piante». In altre parole, l’ailanto riesce a vincere la competizione con le altre specie arboree minando di fatto la biodiversità. «Questa pianta sta colonizzando il nostro territorio, modificando il paesaggio sia in città che nelle campagne», scrive l’agronomo sul proprio blog Vigopensiero.
A MeridioNews sottolinea come a rendere più allarmante la situazione sia l’assenza di intervento da parte delle istituzioni. «Capita che i Comuni invece di eradicarala provvedano a potare la pianta, lasciando così che l’ailanto vada avanti in quella che potrebbe essere definita una vera e propria invasione. Basta girare per le strade – prosegue l’agronomo – per accorgersi di come si trovi in ogni zona: per le strade, nelle scarpate, lungo l’autostrada».
Vigo conclude facendo un paragone che spiega la capacità infestante dell’albero del paradiso. «È paragonabile alle canne dei fiumi che con facilità entrano nei terreni vicini e lì proliferano, anche in questo caso per la mancata manutenzione dei corsi d’acqua», conclude.
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