Stefano Biondo aveva 21 anni quando ha perso la vita nella struttura dove era stato trasferito dopo tre anni nel reparto di psichiatria dell'Umberto I. Per fermare una delle sue crisi, un sanitario lo avrebbe soffocato con una manovra a tenaglia. La sorella Rossana attende giustizia dal processo e ha fondato un'associazione
La storia di Stefano, disabile morto in una comunità Sorella: «Quell’infermiere lavora ancora in ospedale»
«Qui le istituzioni ti fanno sentire quasi colpevole di avere un parente disabile, specie se si tratta di una disabilità psichica». Lo sa bene Rossana, che è anche la sorella di Stefano Biondo, 21enne siracusano disabile psichico morto il 25 gennaio di sei anni fa. «Stefano all’apparenza era un omone grande, alto più di un metro e 85, ma in realtà era un bambinone di 5-6 anni. Quando era allegro – ricorda Rossana – era molto propenso verso gli altri ma qualche volta, forse anche a causa dei problemi familiari, aveva dei momenti di chiusura e delle vere e proprie crisi. A tratti autistico e a tratti schizofrenico, i medici non sono mai stati in grado di dare una versione univoca della sua malattia. Amava passeggiare e mangiare il gelato anche se la sua vera passione era guardare i treni, ma nelle varie strutture in cui è stato gli volevano per forza insegnare a leggere, a scrivere a disegnare».
Nel 2008, l’ultima struttura in cui Stefano era ricoverato lo ha fatto entrare con un Trattamento sanitario obbligatorio nel reparto di psichiatria dell’ospedale Umberto I di Siracusa dove è rimasto per circa tre anni. «Durante quegli anni – racconta la sorella – ho sempre lottato per trovargli un posto idoneo ma non lo volevano in nessuna struttura. Alla fine mi sono rivolta al giudice tutelare e, a quel punto, dal Comune di Siracusa mi hanno dato un elenco dal quale avrei dovuto scegliere una struttura. Me le sono girate tutte, ma si rifiutavano con la scusa di essere al completo. Poi finalmente ho trovata una comunità alloggio che aveva aperto da poco. Lì mi hanno detto che avrebbero accettato l’inserimento di Stefano solo a condizione che, per tre ore la mattina e per tre ore il pomeriggio, ci fosse stato un infermiere del reparto di psichiatria per il periodo di ambientamento».
Dopo due settimane di visite alla struttura per fargli prendere confidenza con l’ambiente e fargli conoscere gradualmente gli altri ospiti e gli operatori, il 24 gennaio del 2011 Stefano si trasferisce nella comunità. «Era felicissimo – ricorda Rossana – e noi eravamo al settimo cielo a sapere che finalmente aveva trovato un luogo in cui avere un po’ di serenità». Sono le 17.40 del 25 gennaio, però, quando Rossana riceve una telefonata da una delle operatrici della struttura che le chiede di andare subito perché Stefano si era sentito male.
«L’infermiere di psichiatria che era andato quel giorno era uno dei due con cui Stefano, durante il lungo periodo di ricovero ospedaliero, aveva avuto qualche screzio e che meno tollerava mio fratello». Quando arriva in struttura, Rossana racconta di aver trovato Stefano sdraiato a terra con i polsi legati con un cavo elettrico. «Ho capito subito che c’era qualcosa che non andava. Quell’infermiere era lì accanto a lui ma nessuno stava facendo niente per soccorrerlo. Così io, che avevo fatto semplicemente un corso di primo soccorso, ho tentato disperatamente di rianimarlo mentre loro per tranquillizzarmi mi dicevano che stava così perché gli avevano somministrato un forte sedativo. Ma io – ricorda – non sentivo il polso ed ero disperata. Quando è arrivata l’ambulanza, ho scoperto che l’infermiere non aveva nemmeno chiamato il codice rosso. Solo dopo mezz’ora è arrivata l’ambulanza con il defibrillatore ma a quel punto non c’era più niente da fare. Ricordo di aver solo urlato che “i morti non si resuscitano”».
I due referti di autopsia parlano entrambi di morte per asfissia meccanica da soffocamento causata o dalla chiusura diretta di naso e bocca o dalla compressione della gabbia toracica. Secondo la ricostruzione che Rossana fa, sulla base di quanto le raccontano i presenti, «Stefano stava disegnando quando, a un certo punto ha sollevato il tavolo per poi farlo ricadere a terra. A quel punto l’infermiere lo ha buttato a terra, gli ha messo il braccio intorno al collo e, con la manovra a tenaglia, lo ha soffocato. Poi gli si è messo addosso comprimendogli la gabbia toracica. In pratica, non gli ha dato scampo».
Nel settembre del 2015, dopo una richiesta di archiviazione del pubblico ministero rigettata dal giudice per le indagini preliminari, è partito il processo per la morte di Stefano Biondo in cui unico indagato è l’infermiere dell’Asp. «In realtà – spiega Rossana, che oltre a essere la sorella era anche la tutrice di Stefano – io ho fatto due denunce: una per l’infermiere che reputo essere l’omicida materiale di mio fratello e una per i responsabili morali della morte di Stefano, i dirigenti dell’Asp che hanno permesso che tutto questo accadesse. Dopo sei anni, adesso che siamo entrati nel cuore del processo, finalmente durante la scorsa udienza ho potuto deporre anche io».
In questi anni in attesa di un barlume di giustizia, Rossana ha fondato l’associazione Astrea in memoria di Stefano «il cui obiettivo è quello di aiutare le persone in difficoltà con un occhio particolare nei confronti delle disabilità. Già da qualche tempo, per esempio, abbiamo presentato al sindaco una richiesta di cure alternative al Tso che ha già ucciso troppe persone. Attraverso il lavoro in associazione – denuncia Rossana – ho avuto modo di constatare che la situazione delle strutture siracusane non è migliorata: continuano a essere pensate solo come parcheggi dove imbottire le persone con farmaci per farle stare ferme e buone e, se qualcuno dà fastidio, scatta il Tso».
In attesa della prossima udienza del processo, che è prevista per lunedì 27 febbraio, «la cosa che trovo più ingiusta – lamenta Rossana – è che mentre a mio fratello l’unico posto che sono stati in grado di trovare è dentro a una bara, quell’infermiere ha continuato e continua ancora adesso a lavorare indisturbato in ospedale».