Il dibattito sull'Unità a sinistra tornato all'ordine del giorno dopo le manifestazioni di Catania e di San Babila a Milano. Movimenti che sulle pagine de El Pais sono stati definiti invisibili, proprio perché ci sono, ma non sono rappresentati. Anche nell'Isola
La sinistra invisibile costruisce percorsi in Sicilia Ecco il popolo che rivendica il pane e sogna le rose
C’è Matteo, che coi suoi compagni di strada porta avanti diverse iniziative sociali al Giardino di Scidà, l’unico bene confiscato che il Comune di Catania ad oggi abbia messo a bando. C’è Mariangela, che si occupa di contrasto alla povertà economica ed educativa e che ha raccolto le tante esperienze vissute nei suoi intensi trent’anni, portandole dentro lo Zen di Palermo, il quartiere in cui opera. C’è Peppe, che a Ragusa guida la Camera del lavoro, opponendosi allo sfruttamento dei braccianti agricoli, tutti, dagli italiani ai lavoratori provenienti dall’est europa, fino ai migranti ospiti nei centri d’accoglienza, «perché – dice – c’è un solo modo per disinnescare la guerra tra poveri, ed è chiedere diritti per tutti e tutte». E ancora, c’è Simonetta, che a Siracusa si occupa di migranti, coordinando le attività dei circoli Arci della Provincia. E Peppe, psichiatra, per anni vicino al movimento No Muos, contro la base militare statunitense costruita a Niscemi, e oggi lavora con i migranti vittime di torture. C’è Maria Pia, che si occupa di rigenerazioni urbane e, in questi giorni, lavora in vista di un’iniziativa sulla cooperazione e sulla coesistenza alla quale in pochi giorni hanno aderito oltre 65 associazioni. C’è Antonio, che la sua battaglia ha scelto di tenerla dentro il suo partito, il Pd, opponendosi alla deriva liberale e moderata e raccogliendo, in pochi mesi, il dissenso diffuso in casa dem. È ripartito da un collettivo, quello dei Partigiani Dem, con l’obiettivo di non cambiare partito ma di cambiare il loro di partito. C’è Danilo, che nel Catanese si oppone alle discariche inquinanti che in alcuni territori hanno reso l’aria irrespirabile. C’è Calogero, che si occupa con la sua Cooperativa della gestione dei beni confiscati alla mafia nell’alto Belice corleonese e ne ricava dei pomodori buonissimi. C’è Luigi, che insieme ai suoi compagni e alle sue compagne del Palermo Pride ha reso possibile la contaminazione tra le vertenze della città e quelle di rivendicazione delle libertà sessuali, costruendo uno spazio politico comune, lontano dall’idea di ghetto in cui si vorrebbero relegare i temi Lgbt. Ci sono i ragazzi dell’Arci Porco Rosso a Palermo, che lavorano a Ballarò e lì si occupano del quartiere, ma anche di integrazione e migranti.
In Sicilia sono loro, un pezzo – sicuramente non esaustivo – di quella sinistra invisibile sintetizzata da Luciana Castellina sulle pagine di El Pais, che qualche giorno fa le ha chiesto un’analisi della profonda crisi politica che vive la sinistra in Italia. Una crisi talmente vasta da avere causato una frammentazione unica nella storia del Paese, rendendo di fatto quelle realtà che ogni giorno operano nei territori invisibili, proprio perché non raccolte sotto un’unica grande etichetta. Mentre le foto che sono rimpallate sui social dal molo di Catania, come da piazza San Babila a Milano, consegnano l’immagine di una sinistra che c’è e che sembra avere di nuovo voglia di stare insieme, di trovare i punti in comune piuttosto che litigare su quello che la divide. È Luigi Carollo (Palermo Pride, Sinistra Comune) a trovare le parole forse più calzanti: «Noi abbiamo una crisi di rappresentanza che non è però una crisi di esperienze territoriali, che al contrario negli anni hanno continuato a crescere, magari anche senza tessere di partito in tasca o rappresentanze istituzionali».
Gli spazi della sinistra a Catania.
E così, quella rete che spesso tra forze partitiche appare impossibile da mettere in condivisione, esiste invece nella sinistra dei movimenti, dei collettivi, delle associazioni, dei singoli. Ne è un esempio il Giardino di Scidà a Catania, bene confiscato di circa 60 metri quadri gestito da I Siciliani giovani, insieme a Arci, Fondazione Fava e Gapa. Portano avanti principalmente attività sociali «aperte alla città – dice Matteo Iannitti, che collabora anche con Catania Bene Comune e la rete antirazzista catanese – com’è giusto che sia in un bene confiscato». L’errore maggiore della sinistra radicale, secondo Matteo, è stato quello di occuparsi troppo di Pd: «In ogni momento – sottolinea – dovevamo prenderne le distanze, vivendo di fatto in subalternità rispetto al partito democratico. Adesso, invece, abbiamo costruito una proposta politica autonoma che va dai rifiuti al lavoro passando per la lotta alla mafia o l’accoglienza dei migranti. E il Pd, nei luoghi del dibattito politico – aggiunge – non lo incontriamo quasi mai. Ormai è un partito di notabili, di comitati d’affari e di segreterie politiche di singoli esponenti. È chiaro che c’è l’urgenza di costruire un nuovo soggetto, che parta dalla difesa dei beni comuni, dell’ambiente, degli spazi di democrazia, della mancanza di reddito. Che parli di lavoro ma anche di lavoro nero».
Secondo Matteo, invece «in questo momento nell’immaginario collettivo si parte dall’idea che per rivendicare un diritto sociale dobbiamo toglierlo a un altro. È questa narrazione che va smontata – afferma – per portare avanti l’idea che un diritto, per essere tale, deve essere alla portata di tutti. Dobbiamo partire da un movimento culturale. Se poi saremo così tanti da arrivare all’interno delle istituzioni, possiamo anche pensare a un’aggregazione».
Una cosa che ripetono in molti, partire dai contenuti per fare squadra e poi darsi una forma. «Sì, perché a quel punto l’aggregazione è bell’e fatta, sui contenuti, non su sigle vuote da riempire. Credo che la storia di chi si chiude in una stanza e fa le liste sia finita, come vedo finite le esperienze politiche in atto in questa fase, dal Pd a Leu, fino a Potere al popolo. Però attenzione, vedere una piazza piena non ci deve fare dire “ah che bello, facciamo un partito”. Continuiamo a essere movimento. E questa cosa, in un modo o nell’altro, irromperà nelle istituzioni».
«Serve la capacità – interviene Danilo Festa, del Comitato no discarica Misterbianco-Motta Sant’Anastasia – di saper cogliere le criticità del singolo territorio e far diventare il problema che è di ciascuno, un tema politico collettivo. Perché è vero che la puzza delle discariche è un problema di chi abita nelle zone limitrofe, ma la sfida della politica è far diventare un problema individuale, un tema collettivo. A mettere insieme sigle ci abbiamo già provato, ma sappiamo che non funziona. È dai contenuti e dai territori che bisogna ripartire».
A Trapani un Mediterraneo di pace.
Intanto, mentre anche Walter Veltroni dalle pagine di Repubblica lancia un appello all’unità della sinistra, oltre la spontaneità del molo di Catania il prossimo 2 settembre una nuova prova tecnica di unità avrà luogo a Trapani, dove Maria Pia Erice, coi suoi compagni di strada, ha organizzato una tavola rotonda dal titolo Un mediterraneo di pace. Perché quello che la paura divide, la cultura unisce alla quale hanno aderito oltre 65 associazioni, organizzazioni, privati, ristoratori, testate giornalistiche. Dalla Diocesi al Cif, passando per il sindaco dem, fino all’Anpi o alla Cgil. «Attraverso il cibo più contaminato che c’è nel Mediterraneo, che è il cous cous – racconta – cercheremo di mettere in contatto quante più culture possibili, con il linguaggio più semplice che è quello della condivisione e del confronto diretto. Ma questa è solo la prima tappa di una iniziativa trasversale che ha dentro tutto, tranne i razzisti».
In tutto questo si guarda solo agli errori di chi ha fatto e, magari, ha sbagliato. Ma siamo certi che la sinistra più radicale non abbia colpe? «Abbiamo abdicato alle dirigenze la responsabilità di parlare dei temi, che invece – aggiunge – dobbiamo essere noi a mettere al centro dell’agenda politica. Basta guardare alle cose che ci dividono, parliamo di quello che ci unisce, perché il globale lo cambiamo a partire dal localissimo. Se io avessi dovuto organizzare questa cosa con un partito non lo avrei potuto fare, perché il partito è diventato un luogo respingente e molta gente non si sarebbe avvicinata».
Le lotte per i diritti dei lavoratori nel Ragusano.
Se nel resto d’Italia il nemico comune resta il migrante, a Ragusa la contaminazione c’è stata eccome. Purtroppo è stata al ribasso. Così oltre alla crisi dell’agricoltura legata ai costi asfittici della grande distribuzione, ecco che nuove forme di caporalato giocano alla guerra tra poveri al ribasso, tra braccianti siciliani, lavoratori provenienti dall’est Europa e migranti ospiti dei centri d’accoglienza. A occuparsi di loro c’è la Camera del Lavoro di Ragusa. «Queste dinamiche migratorie – dice Peppe Scifo, segretario Cgil Ragusa – hanno alimentato nelle dinamiche del lavoro una corsa al ribasso rispetto ai diritti e alle condizioni di lavoro in generale, con il proliferare di fenomeni di caporalato, di sfruttamento delle donne, ma anche di un abbassamento generale dei diritti. Noi pensiamo che non ci sia altra via, se non aggredire lo sfruttamento al di là del colore della pelle, mettendo su un movimento sindacale che tenga tutto insieme. Perché se tu difendi i più deboli, difendi anche quelli che più deboli non sono, mentre se lasci tutto com’è, sarà una caduta libera anche per chi oggi si sente più tutelato».
«In ogni stagione migratoria – aggiunge – in virtù dei nuovi flussi, ci si affaccia a una nuova frontiera di sfruttamento. Così oggi, anche rispetto ai lavoratori dell’est Europa, i ragazzi del circuito d’accoglienza scontano le condizioni peggiori. Sono persone che provengono da contesti in cui non esiste il concetto di lavoro strutturato, che lavorano magari per 15 euro al giorno e non è nella loro cultura chiedere diritti».
Da dove ripartire, insomma, per costruire la nuova sinistra? «Sinceramente partirei dalla presa di distanza da chi è stato malattia e oggi vorrebbe essere cura. Penso ai voucher, al job act, alle politiche dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti sull’immigrazione. Chiediamoci cosa sia la sinistra oggi e come si debba porre un’organizzazione di sinistra rispetto a questi temi. Bisogna partire dai contenuti, mettere al centro il lavoro, il rispetto alla condizione dei migranti, dei giovani, delle donne. Perché se riparti dal lavoro e dai diritti per tutti – conclude – fermi la caccia alle streghe contro il diverso, ma fermi anche l’emorragia di giovani che vanno via dall’Italia e contribuisci a definire condizioni lavorative paritarie per le donne».
Le periferie e il contrasto alla povertà.
Nella periferia sociale, prima ancora che geografica, dello Zen di Palermo opera da anni Mariangela Di Gangi, con il suo Laboratorio Zen Insieme. Già animatrice della campagna elettorale del 2006 di Rita Borsellino contro Totò Cuffaro, Di Gangi si è formata anche attraverso il lavoro al fianco della sorella del giudice, recentemente scomparsa, dentro l’Assemblea Regionale, prima, e al Parlamento Europeo poi. Ha collaborato con l’ex vicepresidente della Commissione Affari Esteri alla Camera, Erasmo Palazzotto, ma si è anche fatta i turni notturni nelle comunità per minori stranieri non accompagnati, ha lavorato nei dormitori dell’Opera Don Calabria, ha rappresentato il Terzo Settore al Comune di Palermo. Poi ha preso tutte queste esperienze e le ha portate allo Zen, dove manca persino la rete fognaria e l’acqua pubblica. E il tema sembra non interessare particolarmente al resto della città, come se lo Zen fosse altro rispetto a Palermo. «Oggi mi occupo di contrasto alla povertà, anche educativa, e di diritti per l’infanzia. Penso che in una società giusta – racconta – un bambino che nasce allo Zen o a Falsomiele debba avere gli stessi diritti e la stessa prospettiva di futuro di chi nasce in via Libertà. Oggi non è così. A breve inizieranno le scuole e in questo momento la nostra emergenza è legata al fatto che un bambino di una famiglia indigente non se lo può permettere di entrare a scuola. Perché la dotazione scolastica ha un costo che non tutti possono sostenere – spiega – soprattutto se in casa il reddito è soltanto uno e le bocche da sfamare sono magari sette o otto. Sento parlare spesso di asili nido come diritto delle mamme, dimenticando che il nido è innanzitutto un diritto del bambino, perché è da lì che comincia la formazione dell’adulto che diventerà».
È possibile rimettere insieme tutti i pezzi di una sinistra così frammentata? «Io credo che possa stare tutto insieme e penso anche che sia una delle cose più faticose che ci troveremo a fare nel prossimo futuro – dice Mariangela – Perché negli ultimi anni c’è stata una balcanizzazione della sinistra che non è facilmente risolvibile, anche guardando alle microsoggettività a sinistra del Pd è difficilissimo pensare che si possa tornare a ragionare insieme. Ma questo periodo storico ti impone di abbandonare delle categorie che fino all’anno scorso funzionavano. E che oggi non funzionano più».
Secondo Mariangela, il punto è che si è perso il senso della connessione reale «a quei famosi ultimi che vorremmo rappresentare, a cui non solo non importa nulla delle divisioni, che so, tra Potere al Popolo e Leu, ma che non le conoscono nemmeno. Invece si continua a fare un dibattito che anche quando parla dei diritti più diritti di tutti, parla solo per se stesso, non rappresenta nessuno. E aggiungo che lo fa con un’arroganza, una saccenza, che non porta da nessuna parte».
Le continue e ripetute liti sui social network? «In questi giorni vedo persone di sinistra intente a insultare sui social chi non la pensa come loro: ebbene, la gente non è tenuta a essere preparata, dobbiamo essere noi a mediare i messaggi. Se non lo facciamo, siamo noi a non essere stati bravi, non sono gli altri che non capiscono. Non siamo più bravi degli altri, siamo solo stati più fortunati, abbiamo avuto più opportunità di conoscenza e di formazione».
«Portateveli a casa vostra».
In Sicilia, senza grande clamore, c’è chi lo ha fatto davvero. E non oggi, quando ormai la macchina dell’odio è stata ben oleata a tutti i livelli in Italia. «Dal 2013 – racconta Simonetta Cascio, presidente dell’Arci Siracusa – è sicuramente aumentato il nostro impegno sui migranti. E devo dire che quando ci sono stati i respingimenti, quando si sono verificate situazioni particolarmente calde, la società civile ha risposto benissimo. E non sono stati isolati i casi in cui i rifugiati sono stati accolti nelle case dei siracusani».
Ma le battaglie delle associazioni siracusane, l’Arci ma non solo quella, schierate a sinistra ma anche non connotate politicamente, non si sono fermate ai flussi migratori. È così che, ad esempio, quando i commercianti siracusani hanno subito forti pressioni estorsive, corredate da minacce e bombe carta, tutte le associazioni si sono riunite ancora una volta per una grande manifestazione che ha coinvolto tutta la cittadinanza contro le estorsioni. «E poi c’è l’esperienza di Sos Siracusa – racconta ancora Simonetta – al fianco di numerose associazioni, dall’Arci a Legambiente, a difesa dell’ultimo scorcio di costa non edificato, in cui avrebbero voluto realizzare un nuovo villaggio turistico. Abbiamo impedito quella costruzione facendo approvare in consiglio comunale una variante del piano paesaggistico. Insomma, con i movimenti ci siamo, riusciamo a stare tutti uniti». E poi arrivano le elezioni. «Esatto. E ci diviadiamo di nuovo. Ma io sono convinta che su alcuni temi si possa e si debba trovare l’unità, sui migranti ma non solo, sulla difesa dei diritti, sulla pace, sulla solidarietà, sull’ambiente, sulla lotta alla mafia».
In tanti, in Sicilia, si occupano di migranti, di integrazione e di cooperazione. A Niscemi, nel cuore più profondo dell’Isola, c’è uno psicoterapeuta. Si chiama Peppe Cannella, per anni si è occupato della battaglia collettiva contro la costruzione del Muos, la piattaforma militare statunitense attorno a cui vivono migliaia di siciliani preoccupati per la loro salute. Da qualche anno Peppe è tornato all’attivismo sociale attraverso la sua professione, lavorando con i migranti vittime di torture. «È finita – dice – l’epoca dei rappresentanti solo istituzionali, il mondo è cambiato e la sinistra oggi è là fuori, tra la gente. Serve la lungimiranza da parte di questa classe dirigente di capire che è il momento di fare un passo indietro».
E ripartire da dove? «Io ripartirei da una sinistra che sta sui territori – aggiunge – che oggi sono quelli delle periferie, dei quartieri, contro le militarizzazioni, una sinistra che sia sociale non a slogan, ma delle persone che diventano protagoniste, con le loro storie e i loro percorsi. Sinceramente non penso che ci sia una compatibilità tra le cose dette e fatte dal Pd con quelle del resto della sinistra». Insomma, nessuna unità? «Antifascismo e antirazzismo potrebbero essere colonne portanti di un’organizzazione fatta da persone che si mettono insieme. Ma non possiamo ignorare che le politiche portate avanti dal ministro Minniti hanno aperto le porte a quello che sta facendo Salvini oggi».
In direzione ostinata e contraria.
C’è anche chi le sue battaglie in questi anni le ha fatte restando nelle cose, nei partiti, nelle organizzazioni politiche tradizionali. È il caso dei Partigiani Dem, capitanati da Antonio Rubino, che hanno iniziato il loro percorso all’indomani dell’ecatombe elettorale del 4 marzo. O meglio, avevano annunciato un’azione per il 5 marzo già in campagna elettorale. In realtà sono partiti il 6 marzo, in ritardo. Una cosa di sinistra, insomma. E hanno annunciato la nascita del loro collettivo, i Partigiani dem, in aperta contestazione dei renziani in casa Pd, ma in generale opponendosi a un partito «che pensa che la sua attività in Sicilia si esaurisca nell’Assemblea Regionale». L’obiettivo, più volte dichiarato, è quello di non cambiare partito, ma di cambiare le dinamiche all’interno del loro, di partito. Di fatto, i Partigiani sono riusciti ad arginare l’emorragia di dissidenti dentro il Pd, che a quel punto si sono sentiti rappresentati da una voce fuori dal coro in casa dem. «Io penso – dice Rubino – che la fotografia dal molo di Catania ci consegni quel popolo vasto del centrosinistra, che vuole stare di nuovo insieme. Adesso abbiamo il compito di trovare il modo». E allora il Pd? «Il Pd è parte fondamentale di questo percorso e deve dare il suo contributo».
Un punto sul quale dissente invece Luigi Carollo, tra i fondatori del Palermo Pride e portavoce di Sinistra Comune, che a Palermo ha raccolto le esperienze a sinistra del Pd in un’unica lista che ha eletto quattro consiglieri a Sala delle Lapidi. «Questi giorni, ma non solo, ci consegnano un segnale chiaro: non si può essere sinistra se non si sa essere schierati, perché si finisce col preparare la strada alla vittoria dalle destre. Il Pd è imprescindibile se si fa carico di questa idea di sinistra, non se si ostina a farsi carico della mediazione col neo liberismo moderato. Ma lo stesso vale per la sinistra radicale, perché se continua ad alzare soltanto bandiere rischia di essere velleitaria tanto quanto».
Luigi, che proviene dal Palermo Pride, col quale in questi anni si sono portate avanti numerose battaglie. «Abbiamo operato un cambiamento che è visibile non soltanto per via delle risposte istituzionali create, dal registro sulle unioni civili alla legge regionale contro l’omofobia, ma soprattutto perché in questi anni abbiamo parlato di lavoro, di istruzione, di integrazione. A partire dalla battaglia per la libertà sessuale, siamo stati capaci di mettere in rete tante vertenze della città». E poi c’è Sinistra Comune, esperienza politica per certi versi speculare a quella del Pride in termini di contaminazione tra esperienze diverse. «La strada maestra è stata la medesima – ammette ancora Luigi -, abbiamo messo insieme quanto si muove in termini di attivismo e militanza sociale in questa città. Mettere insieme la sinistra è uno sforzo che vale la pena fare se non ci si limita solo alla rappresentanza partitica, ma si fa un lavoro di sintesi con le altre esperienze di sinistra che si muovono nei territori. Io credo che sia sbagliato parlare di riunire la sinistra, non bisogna rincollare quello che si è rotto, ma avere l’intelligenza di fare rete, non buttando all’aria l’esperienza dei partiti, ma non limitandosi a quello».
Cerca di essere più pragmatico Sergio Lima, attivista e militante di sinistra, a lungo al fianco di Erasmo Palazzotto sui temi dei migranti e oggi portavoce della Commissione regionale antimafia. «Vedo troppa teorizzazione e poco sguardo sulla realtà. Nella piazza di Catania il 90 per cento della gente è arrivata sulla necessità di dire o fare qualcosa, non era gente riconducibile a nessuna delle organizzazioni politiche».
E quindi, cos’è la sinistra oggi? «Se devo pensare cos’è sinistra, è esattamente quella là, la sinistra si costruisce stando nelle cose, non continuando a discuterne. Quello è il passaggio che le organizzazioni partitiche non hanno ancora fatto, ma che la gente ha già compiuto. Nessuna delle forze in campo può farlo, bisognerebbe fare in modo che questi soggetti più che stare in una casa costruita da altri cominciassero a mettersi insieme – conclude – e costruirla loro stessi quella casa. La sinistra non ha bisogno di un Mosè che la porti fuori dall’Egitto, ma di un luogo in cui poter fare quello che sta già facendo».