La Sicilia continua a spopolarsi, nonostante la pandemia «Servono lavori ad alte competenze e servizi nei borghi»

C’è chi è andato via già dopo la maturità per un’offerta universitaria specifica. E chi molto dopo «per un mercato del lavoro con condizioni migliori». Ma anche chi, più semplicemente, ha lasciato la Sicilia «perché non mi pagavano e invece in Germania, dopo tre mesi e senza conoscere bene la lingua, ho ricevuto un contratto in uno studio di architettura». Sono alcune delle storie degli emigrati siciliani, alla ricerca di stabilità. Sogni quotidiani, come «sposarmi, pagare un affitto senza troppa ansia e magari togliermi qualche sfizio». Tra il 2020 e il 2022 – nonostante la pandemia, lo smart working e le lezioni online – sono quasi 80mila le persone che hanno lasciato l’Isola. In termini numerici, è come se i cittadini di Ragusa fossero tutti scomparsi. Lo dicono i dati Istat, citati in un documento con cui Anci Sicilia, l’associazione dei Comuni italiani, fa appello ai candidati alle prossime elezioni regionali e nazionali. Quasi tutte le province negli ultimi due anni hanno perso il 2-3 per cento dei cittadini. Peggio fa solo Agrigento, con il 4 per cento. Unico saldo positivo si registra a Catania: con duemila persone in più, che non colmano certo il meno 22 per cento dal 1981 al 2019

L’Isola è poi la regione italiana con il più alto numero di residenti all’estero iscritti all’Aire: circa 800mila. Conto che lascia fuori quanti vivono e studiano nel resto d’Italia o all’estero pur mantenendo in Sicilia la propria residenza. «Quando parliamo di spopolamento, ci riferiamo in realtà a un doppio fenomeno», spiega Fabio Massimo Lo Verde, docente di Sociologia all’università di Palermo, ospite della trasmissione Ora d’aria su Radio Fantastica e Sestarete tv-canale 81. Il primo è il saldo tra cittadini deceduti e nuovi nati: un divario destinato ad allargarsi sempre di più «perché dovremmo ricominciare a far figli subito per avere tra vent’anni dei numeri significativi in crescita». C’è poi appunto l’emigrazione economica: «La stessa che porta alcuni fuori e fa arrivare altre persone qui da noi», continua il docente. Gli spostamenti nazionali seguono di solito due direttrici: «Una lavorativa verso i grandi centri del centro-nord che, negli anni, hanno concentrato l’intera produzione della filiera di beni e servizi – spiega Lo Verde – e l’altra a beneficio dei piccoli borghi vicino questi centri, dove la qualità della vita è migliore».

Entrambe condizioni che in Sicilia, però, non si verificano. «Perché da noi le aree periferiche sono sì più a misura d’uomo, ma spesso prive di servizi e scollegate – continua il docente – mentre i grandi centri non hanno offerta di lavoro ad alto tasso di competenze». Ed è qui, secondo il sociologo, che le istituzioni potrebbero operare: nell’attrarre investimenti in ricerca e sviluppo o capaci di offrire altre posizioni specializzate. Oppure ancora puntare ad accogliere i cosiddetti nomadi digitali – chi cioè per lavorare ha bisogno solo di una linea wi-fi – anche non siciliani: a patto però di offrire loro servizi e non solo mare, sole e cibo. Un tentativo già fatto in passato, ma non in un’ottica di sistema: «Perché, per riuscirci, bisogna prima pensare, ad esempio, a ridurre i tempi di arrivo delle merci».


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