La scelta del Razmataz: «Chiudere è un atto di resistenza»

Ci sono diversi modi per resistere di fronte alle misure restrittive dovute alla pandemia. Tra i ristoratori c’è chi si iscritto alle piattaforme che gestiscono i servizi di consegne a domicilio, chi si è organizzato rimodulando i compiti del personale, chi ha adatto il locale soltanto all’asporto. «Ma anche decidere di chiudere è una forma di resistenza», racconta a MeridioNews Massimo Villardita, il proprietario di Razmataz

È con un lungo messaggio rivolto ai clienti che il titolare del wine bar di via Montesano, nel cuore del centro storico di Catania, ha annunciato «l’unica scelta etica che era possibile fare, per noi, in questo periodo». Niente delivery e niente asporto. «Dobbiamo privilegiare la salute sopra ogni altra cosa – si legge nel messaggio di tutto lo staff dello scorso 9 novembre – Non possiamo al contempo coccolarvi e mettervi a rischio. Non ha senso sperare la sera di sentire di meno contagi e la mattina di vedervi affollati ai tavoli». Una posizione controcorrente rispetto a quella di molti altri ristoratori che, invece, con l’entrata in vigore del nuovo Dpcm del governo di Giuseppe Conte, sono scesi in piazza a protestare contro le misure restrittive per contenere la diffusione dei contagi del nuovo coronavirus. 

«Credo sia sciocco fare di tutto per aprire i locali in questo periodo – commenta Villardita – I ristoranti, in generale, sono soprattutto luoghi di spensieratezza, di socialità e di condivisione dove, inutile negarlo, c’è il rischio che il virus si diffonda facilmente». Lasciare la saracinesca completamente abbassata, però, nel caso del Razmataz non significa sospendere tutte le attività. «I venti ragazzi che lavorano tra sala e cucina sono in cassa integrazione – spiega Villardita – Io sto approfittando di questo tempo per ristrutturare l’organizzazione: sto studiano un menù particolare e anche un tipo di packaging adatto per potere effettuare delle consegne a domicilio». Solo quando, però, ci saranno le condizioni giuste per poterlo fare. «A quel punto mi piacerebbe non dovermi affidare a nessuna piattaforma – dice il titolare – ma vorrei che a consegnare il cibo fossero i ragazzi che i clienti conoscono già, che possa anche spiegare il menù e, in qualche modo, finire a domicilio anche il piatto». 

A orientare la scelta di Villardita non sono state questioni strettamente pratiche ma «la consapevolezza che abbiamo una funzione sociale, un ruolo accudivo. Se avessi pensato di creare un posto solo per fare soldi – ironizza – avrei aperto una banca. E, invece, un locale è un posto in cui le persone devono avere la sicurezza di trovarsi in un surrogato di casa». In mancanza di questo, l’opzione chiusura per il Razmataz è stata la più giusta. «Ho due amici ricoverati in ospedale per il Covid-19 – racconta Villardita – la città è cupa ed anche qui si sentono più sirene di ambulanze del solito. In questo contesto, dal mio punto di vista, un locale aperto sarebbe una nota stonata». Nonostante tutto, nessuna demoralizzazione: «Un grande saggio diceva: “Il miglior generale deve saper trasformare le debolezze in forza, e le contrarietà in occasioni”, ma soprattutto – conclude – diceva che “il miglior generale sa quando vincere senza combattere“».


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