La rivoluzione di Al Jazeera

Per un cameraman che è stato testimone della battaglia di Fallujah in Iraq, rimanere seduto dietro a una scrivania è davvero dura. Laith Mushtaq è uno degli unici due giornalisti non embedded ad essere entrato nella città irachena nel 2004, ma negli ultimi mesi si è trasformato in uomo tuttofare di Al Jazeera. Durante le rivoluzioni in nord Africa ha smesso i panni del cameraman e si è letteralmente trasferito nella news room della televisione araba a Doha. Per coordinare gli spostamenti dei corrispondenti in Egitto e le informazioni in arrivo da piazza Tahrir, cuore della rivoluzione. In poche settimane Al Jazeera è diventata punto di riferimento per i media di tutto il mondo. Ed è incredibile pensare che alla base del successo ci sono un blog e una pagina Facebook.

Laith, come ha fatto Al Jazeera a diventare un elemento fondamentale delle rivoluzioni nel mondo arabo?
«Un ruolo importante lo ha giocato Al Jazeera Talk, che all’inizio era semplicemente una pagina Facebook. Nata con l’idea di offrire ai giovani arabi un luogo di discussione, dove condividere le loro idee sulla politica e sulla società. Abbiamo avuto la fortuna che tra gli utenti di Al Jazeera Talk c’era uno dei blogger egiziani più attivi, che ha giocato un ruolo chiave nel far scoppiare la scintilla della rivoluzione. Questo blogger, circa un anno fa, aveva fondato una pagina Facebook per denunciare l’uccisione da parte della polizia di un giovane attivista, arrestato e torturato. Da luogo della memoria quella pagina divenne presto spazio dove discutere delle azioni del governo e della polizia, dove decidere i giorni in cui indire le manifestazioni. Ebbene, il creatore di quella pagina era anche uno degli utenti di Al Jazeera Talk».

Cosa distingue Al Jazeera Talk da un vero e proprio media giornalistico?
«In breve tempo ci siamo ritrovati ad avere in giro per il mondo 144 corrispondenti che postavano informazioni sulla pagina Facebook. Queste persone erano semplici cittadini sparsi in quasi tutti i Paesi arabi, Egitto, Algeria, Tunisia, Iraq, Arabia Saudita, ma anche nel nord e nel sud America, e in Europa, compresa l’Italia. Un’enorme potenzialità. Così qualche mese fa abbiamo deciso di invitare questi corrispondenti a Doha, nella sede centrale di Al Jazeera in Qatar, per offrire loro corsi di formazione: come usare una telecamera, corsi di editing, istruzioni su come selezionare le informazioni e le fonti, e realizzare interviste».

Una scelta che risulterà vincente pochi mesi dopo…
«Quando iniziò la rivoluzione in Egitto, il governo vietò l’ingresso nel Paese a tutti i giornalisti di Al Jazeera provenienti dal Qatar. Molti colleghi furono rispediti indietro una volta giunti all’aeroporto. Dopo due o tre giorni il governo di Mubarak chiuse anche i nostri uffici in Egitto e ritirò ai nostri inviati il permesso di lavorare. Rimanevano solo i dodici corrispondenti di Al Jazeera Talk sparsi per il Paese. Li abbiamo contattati e, insieme ad un altro collega, abbiamo iniziato a coordinare i loro spostamenti dalla news room di Al Jazeera a Doha. Tenevamo i contatti per telefono o via web, rimanendo in redazione dalle otto del mattino alle tre di notte».

Sentivate di essere diventati la voce della rivoluzione?
«Avevamo quattro corrispondenti nel cuore degli eventi, in piazza Tahrir al Cairo. Molti di loro erano completamente sconosciuti al governo e potevano muoversi liberamente perché non avevano bisogno di permessi in quanto semplici cittadini e non giornalisti professionisti. Realizzavano brevi video con piccole telecamere e telefoni cellulari che prima venivano caricate da noi sulla pagina Facebook, e dopo venivano passate agli altri giornalisti di Al Jazeera. A loro si aggiunsero presto anche i video che molti semplici cittadini ci inviavano via email. In questo modo siamo diventati la fonte principale della rivoluzione egiziana».

Adesso come agite in Libia? Che differenze ci sono con gli eventi egiziani e tunisini?
«In Libia la situazione è più difficile e molto più pericolosa per le nostre fonti. Abbiamo quattro corrispondenti per Al Jazeera Talk a Tripoli e più di una troupe con cameraman e giornalista a Bengasi e Ras Lanouf. In questo caso siamo riusciti ad inviare sul campo degli inviati professionisti, così i corrispondenti di Al Jazeera Talk costituiscono una seconda voce, un valido appoggio, anche perché ci sono video che con una telecamera grande non riesci a realizzare».

Così come è successo per le elezioni in Iran.
«Credo che quella sia stata la prima volta che il mondo dei grandi media si è accorto dell’importanza delle nuove tecnologie. Il governo poteva chiudere in un albergo cameraman e giornalisti, ma non poteva fermare tutti i cittadini che avevano un cellulare o una piccola videocamera».

Le rivoluzioni in Egitto e Tunisia hanno ulteriormente cambiato il mondo dei media. Per la prima volta i grandi eventi non vengono raccontati solo con l’occhio dell’Occidente.
«Il successo di Al Jazeera è stato capire sin dall’inizio che eravamo di fronte ad un fatto di portata storica. Siamo partiti senza aspettare che la situazione precipitasse, seguendo l’evolversi della rivoluzione passo dopo passo e dando la possibilità sia ai rivoltosi sia al governo di esprimere le loro opinioni. Ma in una dittatura non c’è spazio per le voci del dissenso. Al Jazeera ha lottato perché siamo un media, non parte di una fazione e abbiamo il dovere di offrire alla gente la possibilità di giudicare e di decidere».

Che rapporto si è creato tra i manifestanti di piazza Tahrir e i giornalisti?
«Sentivamo la responsabilità per le persone che erano lì. Abbiamo ricevuto numerose telefonate che ci pregavano di non spegnere le telecamere, perché altrimenti i manifestanti sarebbero stati uccisi. La loro vita dipendeva da noi. Con tre piccole videocamere piazzate in tre diversi angoli della piazza abbiamo cercato di mostrare la verità al resto del mondo. È stata una rivoluzione per il mondo arabo dove in genere i media si autodistruggono appiattendosi sulla posizione dei governi. Infatti sono caduti insieme a Mubarak. Se invece difendi la ragione e la verità, vinci. Al Jazeera non è una semplice tv di notizie, ma un’idea. Una nuova idea per il mondo arabo».

Novità che vi ha portato critiche anche per quanto riguarda il modo di raccontare la questione palestinese?
«Applichiamo anche in quel caso le stesse regole. Diamo la possibilità sia al governo israeliano che ai palestinesi di esprimere le rispettive opinioni. Nei paesi arabi molti sono contrari a questa scelta, ma noi siamo orgogliosi di essere il primo media che permette agli israeliani di parlare direttamente ad un pubblico arabo. Noi non vogliamo giudicare, ma dare al pubblico la possibilità di farlo».

Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Sappiamo che verrai in Italia.
«Sarò a Perugia per il Festival Internazionale di Giornalismo dove terrò degli incontri. Uno sul rapporto tra cameraman e giornalista; un altro sulla responsabilità dei media nel rapporto tra Occidente e mondo arabo. Il terzo workshop riguarderà l’attività dei giornalisti in guerra o coinvolti in eventi catastrofici, e infine chiuderemo parlando di religioni e giornalismo«».


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