Una storia che inizia nel 2015, quando il consorzio Sisifo vince la gara d'appalto indetta dall'Asp di Catania. Il contratto viene firmato sei anni dopo. Adesso medici, psicologi, fisioterapisti, logopedisti e infermieri hanno scelto di non andare avanti
La protesta degli operatori dell’assistenza domiciliare «Dispiace per i pazienti, ma non si può lavorare così»
«Un malcontento che serpeggiava da tempo a cui si sono aggiunte incertezze economiche e organizzative che ci hanno spinto a non firmare il contratto per provare a garantire i nostri diritti e quelli dei pazienti». È questa la posizione di medici, psicologi, fisioterapisti, logopedisti e infermieri dell’Assistenza domiciliare integrata (Adi) della provincia di Catania dopo il passaggio di consegne avvenuto da Medicasa a Sisifo con una gara al ribasso. «Non stiamo patteggiando per nessuno – ci tiene a precisare a MeridioNews la psicologa Rosa Grifò – Non abbiamo firmato il contratto perché non possiamo accettare quelle condizioni di lavoro». Intanto, nei giorni scorsi, dal consorzio Sisifo è stata inviata un’istanza di precettazione degli operatori al prefetto di Catania, all’assessorato regionale alla Sanità, all’Asp e alla procura della Repubblica.
La storia inizia nel 2015 quando Sisifo vince la gara d’appalto indetta dall’Azienda sanitaria provinciale. Per firmare il contratto, però, tra ricorsi al Tar e sospensive dell’assessorato alla Salute, passano sei anni. Un passaggio di consegne complicato perché a firmare per restare dopo il 31 ottobre è stata solo meno della metà degli operatori. «Non, come siamo stati accusati, per boicottare nessuno – precisa il medico chirurgo Orazio Riolo – ma perché, in questo momento storico, le nostre aspettative sono state deluse e le condizioni di lavoro non ci hanno convinto». Le speranze riguardavano soprattutto l’entrata in vigore del decreto sugli accreditamenti che a settembre è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale. In pratica, una legge che permette agli enti che erogano assistenza domiciliare e che ne hanno i requisiti di accreditarsi alla Regione per essere inseriti in un albo inoltrato alle Asp in cui poi sono i pazienti a scegliere in base ai servizi offerti. Al momento, invece, si procede con gare d’appalto «che non solo creano una sorta di monopolio – lamenta Grifò – ma che stravolgono anche il senso dell’umanizzazione delle cure».
E non solo, i professionisti sanitari lamentano anche «un compenso svilente e inadeguato e un tipo di contratto che non garantisce il personale: ai fisioterapisti – spiega Grifò – 13,50 euro lordi per 45 minuti di servizi a domicilio del paziente che, tra spostamenti, strisce blu e assicurazione, si riducono a quattro euro netti a seduta. Da contratto, poi, ai medici andrebbero 20 euro lordi per una prestazione di minimo mezz’ora che si riducono a 18 per gli psicologi». In realtà, si tratta quasi delle stesse tariffe previste anche nel precedente contratto con Medicasa. «E infatti – aggiunge Riolo – anche con loro la paga non era appagante ma almeno avevamo la certezza delle retribuzioni, un contratto più serio e un’ottima organizzazione del lavoro. In ogni caso, se per assurdo, dovessero tornare loro alle stesse condizioni, continueremmo a non firmare il contratto». Motivo per cui il consorzio è già passato alle vie legali parlando di astensione dai servizi da parte dei circa 120 operatori (sui 220 totali) che non hanno accettato la proposta. «Non è così – affermano i portavoce di Adi – perché con loro noi non abbiamo nessun tipo di vincolo contrattuale e, quindi, possiamo scegliere liberamente».
Questioni burocratiche che si ripercuotono sui circa 3800 pazienti della provincia di Catania, spesso fragili e bisognosi di assistenza. «Dal consorzio dicono che stanno assicurando un operatore a ogni paziente ma noi – sostengono – sappiamo che si tratta di un’assistenza a macchia di leopardo, che ci sono persone rimaste scoperte e che a nessuno viene data la possibilità di usufruire di una équipe multidisciplinare. Il che – aggiungono – nelle prestazioni a domicilio è grave perché l’operatore è solo a casa del paziente». Che, al momento, è l’ultimo anello della catena su cui tutto questo rischia di ripercuotersi. «C’è chi, come me – racconta Riolo – lavora in Adi da 17 anni e ci sono famiglie che conosco da dieci anni e mi dispiace. Ma vediamo svilita la nostra professione, sentiamo sfruttato e strumentalizzato il nostro senso del dovere e la nostra abnegazione e – conclude il medico – non possiamo andare avanti in questo modo».