Stretto nel cappotto di una fifa matta. Lo giurano quelli della Premiata Forneria Marconi: De Andrè aveva una gran paura di condividere il palco con loro in quel 1979. Un tour, in effetti, fuori dal comune. Faber veniva da un disco come Rimini – nel quale aveva collaborato l’ “americanista” Massimo Bubbola – e dall’interpretazione del miglior folk d’oltreoceano (Dylan e Cohen su tutti). In più, nell’album Canzoni del ’74 aveva voluto avvicinarsi a pezzi come “Le passanti” (“Les passantes”) e “Morire per delle idee” (“Mourir pour des idées”) tratte dal repertorio del padre della musica d’autore francese, Georges Brassens. Dunque chitarra/voce nel contesto di strutture minimali e fortemente poggiate sulla parola. De Andrè, insomma, in quel periodo era sempre più convinto che per esaltare le proprie canzoni servisse quel tipo di musica d’accompagnamento, un po’ filastrocca, un po’ nenia, un po’ parabola. Così quando si fece concreta la possibilità di viaggiare per l’Italia con la PFM, già una delle maggiori formazioni di prog rock europeo, in lui si sviluppò un certo timore. Probabilmente mosso da una sorta di inconsapevole senso di protezione per le proprie canzoni. O magari anche da una specie di serratura nei confronti del nuovo.
Dall’altro lato, la Premiata si guardò negli occhi, capendo di stare per affrontare forse la più impegnativa delle prove. Perché gli strumenti dovevano, sì, “volare” alla stregua della loro fama progressive, ma comunque portare in grembo la parola di Faber, pesante con un macigno. Dovevano, sì, esaltare la voce morbidissima del cantautore genovese con arrangiamenti degni del loro nome, ma senza risultare invadenti: difficile, difficilissimo. «L’idea di suonare con un gruppo rock all’inizio mi spaventò – disse De Andrè qualche anno dopo – la PFM mi risolse il problema dandomi una formidabile spinta verso il futuro, stimolandomi a rimettermi a creare per non morire». E allora quella fu la buona scusa per entrambi per cambiare rotta: Faber con corde più multicolori e frizzanti, Di Cioccio e compagni per guardare con maggior fiducia la lingua italiana e i testi.
Un tour assolutamente miracoloso, dunque, probabilmente una delle migliori espressioni che l’Italia della musica impegnata abbia mai realizzato. Con un pubblico difficile, sbronzato dall’atmosfera di piombo di quegli anni violenti. Oggi che sono passati trent’anni dalla mitica turnè e dieci anni dalla morte del cantautore genovese quei concerti appaiono come una delle gemme più preziose lasciate in eredità da De Andrè. Una sintesi miracolosa, poi resa eterna su due volumi dalla Ricordi (per le tappe del Teatro Tenda di Firenze e del Palasport di Bologna). Canzoni come La Guerra di Piero, Bocca di Rosa, Amico Fragile, Via del Campo, Verranno a chiederti del nostro amore, Il pescatore cantate dalla, solita, soffice voce di Faber e modulate dall’inventiva ora decisa, ora arcana, ora colma di eco della prog band milanese. Classicismo e modernità, passato e futuro, solitudine e collettivo, folk e rock, poesia e chitarre elettriche: quelli tra De Andrè e PFM sono due pianeti che si scontrano/incontrano, ma che alla fine divengono uno satellite dell’altro. «Il primo esempio di collaborazione tra due modi completamente diversi di concepire e eseguire le canzoni» – come disse Fabrizio all’uscita dell’Lp.
Per celebrare i 10 anni dalla morte di Faber, lo scorso ottobre è uscito un libro di fotografie curato da Franz Di Cioccio e Guido Harari che racconta quel loro lungo viaggio assieme a De Andrè. Si chiama “Evaporati in una nuvola rock” e, con alcuni splendidi scatti in bianco e nero, immortala un capitolo fondamentale della storia musicale italiana.
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