La Passione di Cristo

Decine di copertine, speciali televisivi, talk shows, dibattiti, accuse, elogi e quant’altro hanno reso “La Passione di Cristo” un fenomeno mediatico-commerciale mondiale.

Realizzato interamente dall’attore-regista australiano Mel Gibson, il film, come tutti sapranno, racconta le ultime dodici ore della vita di Gesù.

Sebbene l’argomento più discusso sia stato lo smoderato uso della violenza, il quale effetto, a mio avviso, risulta smorzato dall’eccessivo discuterne (se ci si aspettano fiumi di sangue, non si è poi tanto sorpresi quando si vedono fiumi di sangue), seguito a ruota dalla decisione di utilizzare l’aramaico ed il latino accompagnati da sottotitoli, per rendere, secondo il regista, il tutto più fedele alla realtà, e dalle polemiche anti-semite, a mio parere prive di fondamento poiché le vicende narrate sono universalmente note e ben contestualizzate nel periodo storico, la cosa che mi ha più colpito, alla visione del film, è il modo in cui Gibson ha deciso di mettere in scena la vicenda.

Premetto che esprimere un giudizio su “La Passione di Cristo” è davvero difficile, non soltanto per la difficoltà di conciliare il commento artistico all’emotività scaturita ma soprattutto per l’inevitabile cambiamento della significazione dei simboli cinematografici rispetto al tema trattato.

Mi spiego meglio: se i movimenti verticali (dal cielo in terra) o il Cristo reso monocolo (come l’obiettivo della macchina da presa) dalle percosse o i continui riferimenti sindonici (natura stessa del cinema, schermo su cui s’imprimono immagini) vengono incontrati in un thriller, un horror, un dramma, ecc., essi vengono considerati come strumenti che il regista adopera simbolicamente per effettuare una significazione meta-cinematografica. Ma adoperare delle tecniche che rimandino all’arte filmica nello sviluppo di un tema religioso (ancora attuale) rischia d’essere pericoloso, in quanto rischia di far intendere la volontà del regista di realizzare un film messiaco, portatore del messaggio divino e la soggettiva (da cui tutti i precedenti registi biblici si erano ben guardati) dagli occhi di Gesù non fa altro che confermare questa natura narcisistica dell’opera di Gibson.

Proprio per quest’identificazione, il cristo di Gibson appare, a mio parere e permettetemi il termine, americanizzato nella sua potenza, nella sua resistenza, nel suo bisogno di avere un nemico visibile che si possa schiacciare e scacciare.

Certamente, quasi tutti gli eventi rappresentati nel film vengono citati nei vangeli, ma nelle scritture Gesù appare più umile, meno eroe e più uomo. Sembra quasi esserci una dicotomia: da un lato il Gesù potente-americanizzato, rappresentato con, conseguente, potenza scenica (sangue, flagellazioni, particolari della crocifissione, ecc.), dall’altro il Gesù umile dell’amore e del perdono della tradizione Cristiana e dei vangeli (che dedicano appena poche righe alle sanguinarie torture patite da Gesù).

Il lodevole tentativo, da parte di Gibson, di recuperare lo spirito cristiano attraverso dei flashback, che, significativamente, scaturiscono sempre da elementi della realtà (come se ogni cosa fosse figura ricordo o prefigurazione di qualcos’altro), sebbene ci regali quella che, a mio parere, è la più toccante scena del film e cioè la caduta sulla via della croce che richiama alla memoria di Maria il bambino Gesù che inciampa, non è sufficiente per riscattare un film che colpisce visivamente ma non abbastanza emozionalmente, non permettendo dunque appieno il passaggio di quel messaggio cristiano d’amore, perdono e redenzione che va ben oltre la sommatoria d’emozioni che un corpo deturpato può provocare.

                                                   


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