Dalle parole del collaboratore di giustizia Francesco Campanella si delinea il quadro dei rapporti a doppio filo che legavano le due organizzazioni negli anni Novanta. «C’erano persone importanti che determinavano gestione di potere come pubblici funzionari, avvocati, notai, magistrati, quindi aveva senso che io ci stessi»
La mafia e la massoneria vista come un gioco utile Dal divieto dei Corleonesi alle soffiate a Provenzano
Acclarato, talvolta, spesso solo supposto o ventilato, ma il legame tra mafia e massoneria non è di certo cosa nuova. Lo sa la commissione nazionale antimafia che, in una delle sue ultime indagini tra le carte delle Procure siciliane e calabresi, ha trovato più di un filo conduttore che lega le due organizzazioni. A volte anche in modo pesante. Tra gli uomini delle cosche, infatti, è stato registrato «un elevato numero di appartenenti alla massoneria – si legge nella relazione redatta – a partire dall’anno 1990». È questo il periodo in cui le segnalazioni, «anche da parte di taluni massoni, circa infiltrazioni mafiose nella massoneria», sono diventate sempre maggiori nel numero e nell’attendibilità, tanto che talvolta si è arrivati «all’abbattimento di logge calabresi e siciliane, talvolta, anche “per possibile inquinamento malavitoso”», dunque allo scioglimento delle organizzazioni locali.
Uno dei primi esempi è stato il caso di Giuseppe Mandalari, gran maestro dell’ordine e gran sovrano del rito scozzese antico, noto soprattutto per essere stato indicato come il commercialista di Totò Riina. Mandalari sta scontando una condanna a 15 anni di carcere. Avrebbe fatto lui da tramite tra le cosche e le logge del Trapanese, cercando anche di intervenire sull’esito di un processo grazie all’influenza di alcuni fratelli. Nel Palermitano, invece, i primi a «coltivare queste relazioni, fuori dal vincolo mafioso, erano stati Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, che intuirono ben presto l’utilità di un’adesione a logge massoniche», ma dopo le guerre di mafia e l’ascesa dei corleonesi le relazione extraconiugali, come veniva chiamata l’appartenenza a più organizzazioni, sono state vietate, come raccontato nelle dichiarazioni da collaboratore di giustizia di Giovanni Brusca.
Un divieto che però non è stato sempre così rigido, se anche Bernardo Provenzano, come pare, avrebbe avuto dei contatti con le logge. A raccontarne ai magistrati è il pentito villabatese Francesco Campanella, uno che, per sua stessa ammissione «giocava a fare il massone» e che fin da giovane apparteneva al Grande oriente d’Italia Triquetra. Campanella era al soldo del capomafia Nicola Mandalà, che di Binnu curava la latitanza. Sarebbe stato lo stesso boss di Villabate a mettere al corrente il suo sottoposto del fatto che lo avrebbero arrestato a breve, cosa che si è poi verificata e che avrebbe dunque dovuto fare riferimento al padre Nino. Da Mandalà, Campanella «aveva invece appreso “che esisteva un terzo livello di soggetti in relazione direttamente con Bernardo Provenzano, all’epoca, che consentiva alla mafia di avere benefici a livello di informazione da forze dell’ordine, magistrati, servizi segreti, ecc. ( ..) Informazioni di prim’ordine. ( ..) a un terzo livello dove c’era di mezzo la massoneria».
La massoneria, sempre secondo Campanella, sarebbe stata vista come un impegno non troppo serio da parte dei mafiosi, che tuttavia aderivano per goderne dei benefici. La sua doppia appartenenza, infatti, che risale agli anni ’90, era nota a entrambe le organizzazioni e «non era osteggiata né dall’una né dell’altra parte». Mandalà, anzi, aveva ritenuto che potesse essere «una cosa interessante e che .. sarebbe potuta tornare utile in qualche maniera». Campanella stesso ha dichiarato che «c’erano persone importanti che determinavano gestione di potere come pubblici funzionari, avvocati, notai, magistrati (..) la massoneria aveva (..) importanza nella città di Palermo in termini di potere economico, politico, decisionale, quindi aveva senso che io stessi anche all’interno di questa organizzazione».