La lezione di Malcolm McDowell

Malcom McDowell, come annuncia Felice Laudadio introducendolo prima del suo arrivo sul palco, è un uomo di spettacolo a tutti gli effetti: lo è stato ieri sera alla consegna del Taormina Arte Award for Cinematic Excellence ed è indubbio che lo sarà anche oggi, durante quella che in questi giorni si è consolidata come una “conversazione tra amici”, più che come una vera lezione di cinema. E in effetti l’ingresso in sala del controverso protagonista di “Arancia meccanica” (altrettanto controverso in “Evilenko”, proiettato immediatamente prima dell’incontro) è piuttosto teatrale. Il fatto che si rifiuti di indossare le cuffie per la traduzione simultanea, sforzandosi di capire le domande del pubblico semplicemente dal suono delle parole, è una delle tante tracce della sua personalità a dir poco vulcanica che dissemina lungo tutta la “lezione-intervista”.

 

Si parte, con la supervisione divertita e a tratti adulatoria di Marco Spagnoli (affiancato da David Grieco, regista di “Evilenko”, nonché grande amico dell’attore inglese), con gli esordi artistici di McDowell: uno spettacolo natalizio a undici anni, “durante il quale, con i riflettori puntati addosso, mi sono sentito a mio agio immediatamente, come se quella del palcoscenico fosse la mia dimensione naturale” racconta.  “Ero un ragazzino ribelle”, confessa Malcom, “ma mi hanno presto portato ‘dalla parte del sistema’: gli inglesi sono molto bravi in questo. Per fortuna io provengo da una regione, l’Inghilterra del Nord, che è tradizionalmente piena di carica umoristica: questa è stata la mia salvezza”. Di aneddoti divertenti, comprendiamo presto, la sua vita e la sua carriera professionale sono piene zeppe, e la sua abilità nel raccontarli sempre in modo diverso, coinvolgendo il pubblico come fossimo seduti tutti insieme attorno al tavolino di un caffé, non conosce cali di creatività.

 

Il teatro, un’effimera esperienza con la musica pop, quindi il cinema: Lindsay Anderson, che lo diresse nel suo primo film, sembra essere un personaggio chiave anche e soprattutto per la sua formazione umana. “Lindsay diventò un mio caro amico”, ricorda con nostalgia “restammo in contatto per anni, e devo ammettere che dal film successivo in poi ho sempre cercato –invano– un legame simile con ogni regista, persino in Stanley Kubrick. Rimasi addirittura scioccato della freddezza di quest’ultimo, del suo modo di dirigere gli attori: quando gli domandavo direttive su come interpretare una scena la sua replica era ‘I’m not RADA’ (l’Accademia Reale di Arte Drammatica, N.d.R.). Ho dovuto imparare la prima regola di sopravvivenza degli attori: costruire i personaggi da sé, senza il costante aiuto dei registi. Ma d’altra parte è giusto che sia cos셔.

“Facendo cinema bisogna essere reali ma non realistici.” suggerisce, con un tono da insegnante che è a percettibile a stento “A me piace molto lavorare con persone che stimo e con cui ho un bel rapporto, ma non sempre è possibile –ogni regista è assolutamente diverso dagli altri–  perciò cerco di non rifiutare mai nessun lavoro, perché è solo lavorando, facendo pratica costantemente, che si può migliorare”. Un consiglio a tutti i futuri movie-makers in sala, questo, presentato sotto la consueta veste spettacolare. “Io non sono, non mi sento un artista, bensì un artigiano: l’artista è chi un film lo scrive”.


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