Fabiana aveva quindici anni quando suo padre moriva fuori dallo stadio Massimino, nella notte del derby Catania-Palermo. Dodici anni dopo la tragedia ispira la felice conclusione dei suoi studi universitari. Il suo racconto a MeridioNews
La figlia dell’ispettore Raciti dedica la tesi al padre «Insulti? Gente che non ha mai provato quel dolore»
Una copia della propria di tesi di laurea accanto all’uniforme del padre poliziotto. Due simboli che rappresentano un percorso lungo e doloroso, cominciato il 2 febbraio 2007, quando Fabiana Raciti di anni ne aveva appena 15. In quella notte terribile, quando lei era ancora una ragazzina, suo padre, l’ispettore di polizia Filippo Raciti, veniva ucciso fuori dallo stadio Massimino durante gli scontri tra le tifoserie di Catania e Palermo. Dodici anni dopo, l’appuntamento con la laurea in Giurisprudenza all’università Kore di Enna e la scelta di donare una copia del suo lavoro al reparto in cui suo padre prestava servizio. Adesso la tesi dal titolo Sicurezza ed Eventi Sportivi: dal Trattato n. 218 del Consiglio d’Europa al Caso Raciti è stata collocata in un posto particolare, all’interno di una vetrina in cui è allestita un’esposizione permanente delle uniformi storiche della polizia.
Come nasce l’idea di scrivere questa tesi?
«Ho cercato di ragionare sull’evoluzione della normativa internazionale e italiana riguardante la sicurezza negli eventi sportivi. Sul fronte italiano, mi sono concentrata su com’è cambiata la normativa dal 2007, l’anno zero per l’ordine pubblico con la morte di mio padre. Ho analizzato tutto e ho portato il mio lavoro in discussione, cercando di capire le lacune e i passi avanti fatti».
Cosa c’è nel tuo tuo futuro?
«Dopo avere studiato Giurisprudenza vorrei continuare a masticare legge, magari con una carriera diplomatica. Ho vissuto un’esperienza in Qatar a fine 2018, affiancando l’ambasciatore italiano insieme ad altri studenti».
Dal 2007 le scene di violenza non si sono mai interrotte. Perché non si riesce a fare sparire il binomio calcio-violenza e dove si dovrebbe intervenire?
«Mi sono fatta diverse idee. Anche cercando di avere un approccio scientifico e sociologico. Ci sono stati comunque dei passi avanti e le coscienze si smuovono. In particolare ragazzi. Con alcuni di loro, incontrati in passato, adesso c’è un presente da appartenenti alla forze dell’ordine. Anche mia madre ha fatto un tour in tutta Italia per trasmettere questo messaggio di legalità. L’unica soluzione è insistere nella scuola fin dai primi anni».
Una parte della popolazione, anche dopo il risultato della tua laurea, ti ha preso di mira con insulti di ogni tipo. Insistendo sul fatto che riesci ad andare avanti grazie a quello che ha vissuto la tua famiglia.
«Sono persone che non hanno mai provato quel dolore che ho provato io a 15 anni. È facile parlare quando si suppone di avere tutte le risposte. Non ti nascondo che la mia adolescenza è stata difficile, sia per il lutto ma anche perché alle superiori c’erano ragazzi che appartenevano ai giovani Acab (All Cops Are Bastards, in italiano «tutti i poliziotti sono bastardi», ndr). Mi scrissero sul banco Raciti al rogo, e fecero lo stesso sui muri della scuola. All’epoca, nonostante tutto, mi assentai solo per pochi giorni. Mi dispiace che ci siano persone senza personalità che non rispettano i valori».
Nonostante la vicenda processuale penale sulla morte di tuo padre sia stata chiusa i gruppi del tifo organizzato solidarizzano con chi lo ha ucciso. Perché succede?
«Mi dispiace ma ci sono sentenze che parlano chiaramente oltre a essere già passate in giudicato. Uno dei due è in semilibertà vigilata e lavora in supermercato catanese, l’altro ha quasi scontato la sua pena. Nelle persone che indossano quelle magliette vedo la volontà di istigare alla violenza, la stessa che indirettamente subisco io e i miei familiari».
Chi ti è stato vicino in questi anni difficili?
«Siamo stati una famiglia molto fortunata. Con l’Italia che ci ha abbracciato sempre e da ogni parte. Con tanto affetto ci sono arrivati messaggi dagli Stati Uniti e dal Tibet. Anche con due semplici righe di puro affetto, scritte da appartenenti alle forze dell’ordine o civili. Sono stati degli aiuti per tutti; per me, mia madre e mio fratello. L’inizio non è stato facile. Non si può morire per una partita di calcio ed è giusto fare giustizia e trasmettere questo principio di rispetto per le forze dell’ordine e per determinati momenti che devono rimanere attimi di gioia tra sportivi».