«Ogni volta che un bene tolto ai mafiosi torna alla collettività è sempre un segnale forte e concreto ma questa volta lo è ancora di più». Alfio Curcio è l’amministratore della cooperativa Beppe Montana di Libera Terra che gestisce già circa novanta ettari di terreni confiscati tra le province di Catania e Siracusa. Adesso, proprio qualche giorno fa, alla stessa realtà è stata affidata la gestione di un agrumeto a Palagonia (nel Catanese). Più di cinque ettari, un casolare trasformato in una villa di lusso, palme alte dieci metri e anche una grande piscina. Un bene definitivamente confiscato alla mafia dal novembre del 2017 – dopo il sequestro giudiziario nel mese di dicembre del 2012 – che per anni, come accade in molti casi, è rimasto comunque occupato abusivamente. Quando, poco più di due anni fa, I Siciliani giovani, l’Arci e l’Asaec erano andati a fare un sopralluogo in contrada Alcovia, lungo la strada statale 74, avevano trovato un lucchetto chiuso. Che chiuso era rimasto anche davanti alle forze dell’ordine e all’amministratore giudiziario Angelo Bonomo che, nonostante fosse il curatore di quel bene per conto dell’Agenzia, non aveva nemmeno le chiavi.
«Quella era stata davvero una situazione assurda – commenta Curcio – e non è andata poi così tanto meglio anche dopo». In mezzo, ci sono stati più di due anni. «Un intervallo di tempo in cui anche noi abbiamo soltanto potuto fare sopralluoghi dall’esterno – dice il presidente della cooperativa che aveva già partecipato al bando per l’assegnazione del bene – E, nel frattempo, nessuno si è preso cura di quel terreno». E, intanto, la natura ha fatto il proprio corso con diverse incursioni anche da parte dei vandali. Una pratica piuttosto comune nella lenta trafila di un bene confiscato. «Il problema – commenta il presidente della cooperativa Beppe Montana – è che la gestione di queste proprietà che sono state dei mafiosi e devono tornare alla collettività viene trattata solo come fosse una pratica o un dossier. E, invece – sottolinea Curcio – non è solo burocrazia che si può mettere in una carpetta da spostare da un tavolo all’altro». Dietro quei beni confiscati alla criminalità organizzata c’era un simbolo del potere mafioso da esibire al territorio. Il fatto che quando passano nelle mani dello Stato le loro condizioni peggiorino, non è un bel segnale. Ed è controproduttivo per le realtà che decidono di investire a livello sociale ma anche economico. «In attesa di sapere se fossimo stati noi ad aggiudicarci l’assegnazione dell’agrumeto di Palagonia – aggiunge – ci eravamo messi a disposizione dell’Agenzia proponendo di occuparci della messa in sicurezza, fare un tagliafuoco e irrigare le piante». Una proposta che, però, non è stata accolta.
Nel frattempo, nonostante da decenni i vecchi proprietari non avrebbero più dovuto metterci piede, una volta tagliato quel lucchetto chiuso, all’interno dell’agrumeto sono stati trovati segni inequivocabili della loro presenza: dagli attrezzi di lavoro alle cassette di olive appena raccolte – da cui poi era stato ricavato dell’olio donato a famiglie bisognose – fino all’energia elettrica ancora attiva e intestata a Domenico Piticchio. Il marito della sorella dell’ex consigliere provinciale dell’Udc Antonino Sangiorgi, che è stato anche assessore a Palagonia sotto la giunta del sindaco Fausto Fagone. Secondo i giudici, sarebbe stato proprio Sangiorgi – che è stato condannato definitivamente a cinque anni e quattro mesi nell’inchiesta Iblis della Direzione distrettuale antimafia di Catania che ha messo sullo stesso piano mafia, politica e mondo imprenditoriale – il vero proprietario del bene. Almeno fino al momento in cui non è stato sequestrato e poi confiscato. «In tutto il tempo che è passato fino a ora non si può parlare nemmeno di mala gestio – lamenta il presidente della coop Beppe Montana che adesso ha ottenuto la gestione del bene per i prossimi trent’anni – perché una gestione proprio non c’è stata. Tutto è stato lasciato all’incuria totale, alla mercé del tempo e dei vandali».
E non è solo una questione di immagine di un bene che, una volta levato dalle mani delle mafie, deperisce. «Il punto principale è che per ripristinare almeno lo stato dei luoghi serve già un investimento iniziale che non avevamo nemmeno messo in conto quando abbiamo presentato il nostro progetto di valorizzazione e restituzione alla collettività». Nel piano dei soci della cooperativa Beppe Montana c’è quello di sfruttare a pieno la multifunzionalità del luogo: non solo reimpiantare la totalità delle piante di agrumi che sono andate perse, ma anche riqualificare gli immobili in un’ottica di un progetto di turismo responsabile. «La nostra idea è di restituire quel bene prima di tutto alla comunità di appartenenza – conclude Curcio – e, proprio per questo, abbiamo fatto un partenariato anche con le associazioni locali. Ci piacerebbe, per esempio, poterlo utilizzare anche come luogo dove organizzare un grest per i bambini. Ripartire proprio da loro per ridare nuova vita a una proprietà che è stato il simbolo di un potere mafioso e adesso diventa un bene comune».
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