Nella sentenza in favore degli agenti della municipale Antonino Raddusa e Giuseppe Tornatore dall'accusa di istigazione al suicidio si parla anche di un tentativo di ostacolare le forze dell'ordine nell'esercizio delle loro funzioni. A metterlo in atto sarebbe stato l'ambulante con la sua «condotta autolesionistica»
La Fata, i motivi del proscioglimento dei vigili «Il suicidio fu resistenza a pubblico ufficiale»
«La reazione veemente opposta da Salvatore La Fata era – essa sì – illegittima». È uno dei passaggi della sentenza con la quale la giudice per l’udienza preliminare Marina Rizza spiega il proscioglimento dall’accusa di istigazione al suicidio per Antonino Raddusa e Giuseppe Tornatore. I due vigili urbani che stavano eseguendo il servizio antiabusivismo in piazza Risorgimento la mattina del 19 settembre 2014, quando l’ambulante 56enne, ex operaio edile, ha tentato di impedire il sequestro della merce che vendeva sul bordo della strada. Una ventina di euro di ortaggi per i quali gli agenti della polizia municipale volevano multarlo «nell’esercizio delle loro funzioni». Un tentato verbale al quale La Fata si è opposto minacciando di darsi fuoco. Un gesto che, per Rizza, è «comprensibile e finanche giustificabile sotto altri profili che non possono e non devono rilevare» in sede giudiziaria. Perché dal punto di vista giuridico si è trattato di «resistenza al compimento di un atto legittimo da parte di pubblici ufficiali». A opporsi alla decisione di Rizza è la famiglia La Fata, il cui avvocato – il penalista Francesco Marchese – ha depositato alcuni giorni fa un ricorso in Cassazione.
E sono proprio i giudici della Suprema corte, ricorda Rizza, ad avere stabilito nel 2009 che il reato di «resistenza a pubblico ufficiale può essere integrato anche da una condotta autolesionistica». Come quella che ha caratterizzato il comportamento di La Fata. Secondo una testimone presentata dalla difesa – una cliente abituale dell’ambulante, presente quella mattina – l’uomo avrebbe detto «Mi brucio» e si sarebbe sentito rispondere, da parte di uno dei due vigili urbani, «Datti fuoco ma spostati più in là». «Non ho sentito niente del genere», smentiscono due dipendenti della Multiservizi che, quel giorno, erano stati chiamati a supportare il servizio di polizia annonaria. Ancora diversa, poi, è la versione del vigile prosciolto Giuseppe Tornatore: «Ha detto “Ora mi abbrucio” in dialetto catanese – risponde il vigile alla polizia giudiziaria – Alla sua affermazione ho testualmente ribadito “Non si abbruciasse, si metta più in là”». Da questa conversazione al suicidio, secondo l’agente della polizia municipale, sarebbero passati «attimi».
Abbastanza perché La Fata si procurasse della benzina. A raccontarlo sono i dipendenti della partecipata comunale. «Si è allontanato per riapparire dopo pochi minuti – dice uno dei due lavoratori sentiti dalla procura – Quando è ritornato aveva tra le mani una bottiglia di plastica». Quella contenente il liquido infiammabile. Il nodo del carburante, però, era rimasto irrisolto fino a questo momento. I titolari della stazione di servizio avevano sempre negato di aver riempito una bottiglia da dare all’ambulante. A smentire questa versione, però, è uno dei benzinai. «Verso le 10 si è presentato il signor La Fata e mi ha chiesto di dargli un po’ di benzina in una bottiglia di plastica che aveva tra le mani – racconta l’uomo agli investigatori – Gliel’ho data e, dopo avermi pagato, è andato via». La Fata si è allontanato di qualche metro. La stazione di servizio Eni di piazza Risorgimento dista qualche passo dal luogo in cui l’uomo montava la sua bancarella. Proprio di fronte alla fermata dell’autobus e a un marciapiede pieno di negozi.
«Non ho assolutamente potuto immaginare che quella bottiglia potesse contenere liquido infiammabile e men che meno che La Fata si stesse dando a fuoco», ricorda Tornatore. Ci sono voluti pochi istanti perché diventasse «una torcia umana», in base al racconto di tutti i testimoni. A spegnere le fiamme ci ha pensato lui stesso, gettandosi addosso un secchio d’acqua che aveva sotto la bancarella. In neanche un minuto le fiamme gli hanno causato ustioni di secondo e terzo grado sul 60 per cento del corpo. È morto 11 giorni dopo, nel reparto di Rianimazione dell’ospedale Cannizzaro di Catania. Secondo la giudice Rizza, «il povero La Fata si è dato fuoco per compiere, impulsivamente e repentinamente, un gesto dimostrativo quale forma di protesta al sequestro». E lo avrebbe fatto comunque, a prescindere dalle eventuali affermazioni degli agenti della municipale. Motivate dal «convincimento che la minaccia non si sarebbe mai concretizzata». Niente a che vedere con l’istigazione al suicidio ipotizzata dalla procura di Catania. Che incassa una sconfitta «perché il fatto non sussiste».