LA CITTÀ INVISIBILE/ Le voci di dentro

Gennaro, tanto per fare un nome: è un vecchietto rugoso, molto sporco, forse centenario (non ricorda più la sua età), e vive in un monolocale minuscolo dove al posto del frigorifero, del tavolo e della tv, tiene un catafalco coperto da una tovaglia bianca: sopra, decine di icone sacre, lumini, fotografie e vasi vuoti. Sulla parete di fronte alla porta d’ingresso c’è un crocifisso di legno chiaro, grande quanto una tela di Picasso, che sembra fare la guardia a tutti quei volti, incastrati sotto un vetro velato di polvere. Gennaro: uno soltanto degli abitanti di questo mondo a parte, quasi magico. Così lontano, così vicino.

Esiste, nel cuore di Catania, una topografia poco conosciuta: le stradine del centro storico, nella zona del Monastero dei Benedettini – via Santa Barbara, via Santissima Trinità, via della Palma, via Pozzo Mulino – sembrano la proiezione di un universo parallelo a quel mondo dentro il quale siamo soliti muoverci. Abito in questo quartiere già da qualche mese: ma non basta abitarlo, per esplorarne i segreti. Bisogna esserci nati per comprenderlo appieno, per conoscere le sue non-regole rigidissime. Altrimenti, si può solo provare a dipingerlo per grandi tratti imprecisi: una Catania a parte, rimasta indietro di una sessantina d’anni almeno. Non fosse per gli squilli di cellulare che si sentono, ogni tanto, da dietro qualche porta di legno già ammuffito.

A sinistra, proprio accanto alla stanza dove abito, vive Antonio: sui 75 anni, solo, si stordisce con le telecronache calcistiche e i filmetti notturni di quart’ordine. È il più cordiale del quartiere. Forse perché ormai, dopo sei mesi, abbiamo raggiunto – nostro malgrado – un discreto livello di conoscenza: sento tutti i rumori che provengono da casa sua, conosco le sue abitudini, so quali programmi vede in tv, quanto durano i suoi accessi di tosse la mattina presto, appena si alza. E  anche lui credo sappia qualcosa del mio modo di vivere.

Di fronte alla palazzina c’è una litografia, e il rumore continuo delle macchine mi fa compagnia per dodici ore al giorno. Ci bazzicano uomini di altri quartieri, che parlano a voce alta di candidature politiche e di voti, ma sembrano anch’essi poveri cristi in cerca di un’occasione. Dietro le loro parole non c’è meno miseria di quanta se ne trovi nelle calze spaiate e rattoppate di Antonio.

Accanto alla litografia abita la signora Anna. Avrà passato da un bel po’ la sessantina e sta sempre a guardare da dietro la finestra. Non so nulla di lei, non l’ho mai vista mettere un piede fuori di casa: sembra che esista solo all’interno della cornice della sua finestra, e forse è davvero quello il suo unico occhio sul mondo. Tra queste viuzze non c’è possibilità di privacy: appena si sente aprire una porta (cigolano tutte, indistintamente) ecco che le solite facce spuntano fuori da una finestra, o escono in strada fischiettando, o aprono semplicemente la porta di casa appena sentono passi vicini. Personaggi al limite tra realtà e fantasia, come Piero, il bombolaro, che ti parla dal fondo buio del suo negozietto di via Santissima Trinità senza mai farsi vedere in faccia. O il giovane pastore della comunità evangelica che si trova all’incrocio tra via Santa Barbara e via Vittorio Emanuele: un’anima pura, dicono di lui nel quartiere. Ma nel quartiere se ne dicono tante, su tutti.

Durante il giorno questo territorio è appannaggio quasi esclusivo degli uomini. Voci roche consumate dal fumo che fanno da contrappunto al rumore meccanico della litografia: come quella di don Nino, che si ferma ogni mattina alle 8.30 all’angolo tra via Santa Barbara e via Garibaldi e  declama – moderno e un po’ arrochito chansonnier – le virtù delle sue «banani, pira e puma». Le donne del quartiere quasi non si vedono, scivolano in fretta con minuscole buste della spesa, o sbattono i tappeti fuori dalle porte socchiuse: stanno in silenzio, ombre che cominciano a vivere non appena cala il buio. Quello è il loro momento: voci stridule, assordanti, che si raccontano cose incomprensibili in un idioma indecifrabile da un balcone all’altro, da un angolo all’altro della strada; e più spesso, dopo le 23, insultano qualche maschio più audace che si è spinto oltre nel tesserne gli elogi. Tra le voci, tra le tante, diverse voci, quella di Ajtina: ce l’ha con qualcuno, giura vendetta. Sento i tacchi trascinati pesantemente sempre più vicini, e vado alla finestra. Continua a urlare, ha la gonna un po’ di traverso e si aggrappa alla borsa buttata sulla spalla. Stasera, come le accade spessissimo, non le è andata bene. Non sono mai riuscita a scoprire quale sia il quartier generale delle tante Ajtine della zona, quelle che al mattino vedo di rado, vestite quasi sempre di nero, con fuseau troppo corti e troppo stretti sui corpi abbondanti, non più giovani, il trucco colato giù come tristissimi Pierrot.

Di notte, poi, rumori. È come se la vita, che in questa zona sembra trascinarsi a stento, non rallentasse mai, pur nella sua monotonia. Un continuo brulicare sotterraneo. Una notte, qualcosa si muove vicino alla mia porta: guardo la strada, i balconi di fronte, le auto parcheggiate, ma tutto sembra sprofondato nel sonno. Mi sporgo per guardare meglio, e vedo Gennaro, l’uomo senza età che vive in mezzo ai suoi altari di lumini, fotografie e quadretti di santi e madonne, seduto davanti alla porta spalancata di casa sua, con una scopa in mano: di tanto in tanto, regolarmente, sposta le cartacce per terra. Tutte le notti Gennaro si mette lì, e con piccoli colpi smuove i volantini – sempre nuovi – che si trova davanti: il perché nemmeno lui lo sa spiegare. Se glielo domandi, annuisce e basta, biascicando parole incomprensibili. Solo verso le due cessano questi rumori di abitudine. Una pausa che interrompe la quotidianità del quartiere: le voci, i suoni, i gesti. Non dura molto: già un paio d’ore dopo Gennaro riprende con il suo rituale purificatore, qualcun altro va al lavoro, qualche Ajtina se ne torna a casa. E tutto ricomincia come prima, ancora una volta.


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