LA CITTÀ INVISIBILE/ La legge di Ramin

Questura di Catania. Ufficio Stranieri. La fila ogni giorno comincia molto presto, fuori, mentre l’ufficio è ancora chiuso: si organizza tutto in modo civile, in base all’ordine di arrivo. Alle ore 8.00 le porte si aprono e la diligente organizzazione si dissolve, di colpo, perché all’interno bisogna prendere un numero. L’ordine d’arrivo non conta più. Entra in ballo un’altra legge, quella più vicina alla natura: vince il più forte. Nascono i primi scontri, generalmente in lingue diverse. Nessuno ha l’intenzione di capire o di farsi capire in questa babele, importante è solo riuscire ad arrivare allo sportello prima degli altri. Lo spazio è stretto, troppo piccolo per il numero di persone, e la calura rende l’attesa snervante. Qui dentro non ci sono stagioni, il caldo è lo stesso a gennaio e a luglio, come se il tempo si fermasse: dalle ore 8,00 alle ore 13,00 di un giorno qualsiasi.

Verso le 8.40 un primo, timido cenno di vita dietro i vetri sporchi degli sportelli: un impiegato, masticando tranquillamente l’ultimo pezzo di colazione, si siede al posto di lavoro. Senza fretta. Anche all’interno dei loro uffici c’è caldo e sembra che sia un vetro troppo sottile, quello che separa i due mondi di funzionari e immigrati. Anche loro, i funzionari, appaiono già stanchi prima di iniziare il lavoro: un lavoro che non regala molte sorprese. Tutto è monotono, tutto è burocrazia, tutto è prevedibile. Quando il numero dei clandestini supera una certa cifra, viene fuori una sanatoria che regolarizza tutti. E l’eccezione ridiventa norma.

Ore 9.00. Chi ha vinto lo scontro per la pole tira fuori il biglietto con il numero 01 e si avvicina trionfalmente allo sportello Informazioni. Prenotazioni. Richiesta moduli. Gli altri restano in attesa, si scambiano informazioni su come bisogna comportarsi per non dover tornare un’altra volta. Perché si torna sempre, c’è sempre una seconda volta: per un documento che manca, per una fotocopia non chiara. Anche queste sono forse anomalie della legge: non sta scritto da nessuna parte quali siano tutte le carte e le scartoffie necessarie per un rinnovo o per un rilascio del permesso di soggiorno. E se anche si trovasse scritto, in quante lingue, in quali lingue bisognerebbe tradurlo? Così ci pensa Ramin a mettere una pezza, volenterosamente, alle smagliature della legge: trentacinque anni, bassino, pelle olivastra. Difficile dire da dove provenga: da Le Mille e una notte, si direbbe, per i suoi vestiti orientali e colorati. Ramin sembra più informato del funzionario e dispensa perle di saggezza ai presenti. «Non devi parlare molto italiano, fratello». Prima regola, dunque: fingere di non capire la lingua. Così si prende per stanchezza l’impiegato. Alla fine, pur di liberarsi di te, farà qualsiasi cosa: compilarti il modulo di persona, chiudere un occhio sullo stesso contratto d’affitto presentato da quattro o cinque famiglie, o su una busta paga scaduta abbondantemente da vari mesi. «Io non capire italiano fratello». Poi, all’uscita, il miracolo: il cellulare squilla e la lingua si scioglie, come d’incanto: «Ciao, Salvo. Sì, tutto bene. Non si è accorto di nulla, è tutto a posto».

Ore 10.00. Il caldo è sempre più soffocante. Ramin continua ad ammaestrare le folle su documenti, contratti di lavoro, carta di soggiorno, diritto di cittadinanza. Sono in pochi, anche tra i rappresentanti nel Parlamento Europeo, a conoscere tutti questi aspetti della legislazione riguardante gli immigrati: ogni problema, per Ramin, ha la sua soluzione. Troppo prosaica, a volte: «Vuoi fare richiesta per ricongiungimento familiare per portare tuo figlio? Non ti conviene, meglio adottare altro figlio». Da un punto di vista strettamente economico, il ragionamento di Ramin non fa una grinza: nonostante tutto, nonostante i tempi lunghi, la pratica per le adozioni risulta comunque meno ostica di quella per il ricongiungimento. Il che significa, in linea teorica, che è più semplice ottenere un figlio nuovo che ricostituire la famiglia con quelli già esistenti. Qualcuno, invece, i figli li ha già in Italia. Gli immigrati africani, soprattutto, tirano fuori i permessi di soggiorno pieni di foto di familiari, come vecchi album di ricordi. Non tutti si commuovono, anzi: i più si lamentano della lentezza con cui la coda adesso si muove, per l’esame accurato che richiedono questi fascicoli.

Ore 11.00. Si dice che la pazienza viene sempre ripagata e ogni piccolo passo avanti accorcia la distanza che separa dallo sportello. Non è consigliabile uscire a prendere un po’ di aria perché non si sa se si potrà rientrare senza aver perso il turno. Anche l’attesa dentro questo locale sembra una metafora dell’immigrazione: uscire, è semplice; entrare, sembra sempre più complicato.

La vita, per un immigrato, non è mai facile. A prescindere dalla situazione migliore o peggiore che trova nel paese che lo accoglie, persino quando – raramente – la ruota gira per il verso giusto, è comunque un dramma dover adattare le piccole abitudini alla nuova situazione, entrare nella mentalità e nei costumi del posto per non restare a vita un estraneo. Integrarsi, cioè. E nel tentativo di appropriarsi della nuova vita l’immigrato, spesso, si allontana dalla precedente, perde le proprie radici, senza saper «sciogliere – come scriveva Ungaretti – il canto del suo abbandono». Estirpare le proprie radici, senza poterle trapiantare in una nuova terra: abbandonarle lì, nella vecchia terra, sepolte assieme alla tua origine.

Ore 12.00. Il caldo ha già logorato i nervi: il funzionario dietro il vetro sbraita all’indirizzo di una signora che vorrebbe prenotare il rinnovo del permesso di soggiorno senza aver portato dietro il vecchio, ma soltanto la carta d’identità. «Il tuo documento in Italia e il tuo permesso di soggiorno» grida lui, paonazzo. «Il Suo permesso di soggiorno», corregge polemicamente la signora. E aggiunge: «Se ho una carta d’identità è logico che ho un permesso di soggiorno in regola, in Italia non mi è mai stato rilasciato un documento senza questo permesso». «Se ti trovano i carabinieri sprovvista», insiste il funzionario, «passi un giorno in caserma». «Senta, ho addosso una giacca che costa il suo stipendio di un mese e guido una macchina di settanta milioni; secondo lei mi chiederanno mai il permesso di soggiorno»? Un colpo basso all’impiegato: e la signora abbandona il palcoscenico con atteggiamento maestoso. «Questo non va bene per extracomunitario», chiosa saggiamente Ramin. «Perché se sei extracomunitario non puoi stare meglio del cittadino medio europeo».

A meno che – sono sottili, a volte, le distinzioni – non si tratti di altri extracomunitari. Americani, giapponesi. Nessuno, però, li definisce così. È un termine che ha acquisito ormai una connotazione sociale, più che geografica e politica – una connotazione dispregiativa, comunque – e che sembra mal attagliarsi a immigrati benestanti. Solamente agli immigrati di serie B, di serie C: nordafricani, europei dell’Est, cinesi. Senza che nessuno di preoccupi troppo delle motivazioni che li hanno portati via dalla loro terra.

Ore 13.00. Orario di chiusura. Si chiude lo sportello, si sfolla attraverso le porte. Qualcuno ha risolto tutto, qualcuno dovrà tornare. Il tempo è fermo fra le 8.00 e le 13.00 di un giorno qualsiasi.

Alice Varsami

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