Kabira voleva i pantaloni

Catania – Kabira J. è afgana. Ha 34 anni ed è bella. In un piccolo e tranquillo bar sul mare, un po’ dimesso, ma dove la privacy è garantita, ancor di più. Davanti, una tazza fumante di tè. Kabira è una giovane donna allegra e spigliata e dai suoi vivaci occhi neri trapela tutta l’irrequietezza del suo animo ribelle. Il suo italiano è un po’ stentato, ma Kabira, si fa capire. Ci racconta la storia della sua vita. E’ venuta in Italia come tanti nella speranza di una vita migliore. Da 6 anni vive a Catania. Lavora come colf presso una famiglia benestante che le fornisce anche vitto e alloggio. Sua figlia, Safya, frequenta la scuola elementare, ed anche Kabira per la verità studia: “Prendo i libri di mia figlia e con l’aiuto della signora Rosa sto imparando a leggere. La signora è una donna molto buona, si occupa di noi e ci tratta come se fossimo di famiglia”. I suoi grandi occhi neri dicono tutto: ora Kabira è felice. Ma non è stato sempre così: “Nella mia vita precedente – così la chiama – ero considerata e trattata come feccia, ogni diritto mi era negato. Per me libertà era solo una parola”.

Kabira nasce a Kandahar, estremo sud dell’Afghanistan, nel 1973, da una povera famiglia di contadini. Quarta di nove figli cresce secondo gli insegnamenti della dottrina coranica. “La mia – dice – è una famiglia intransigente, che applica rigidamente la ‘legge’ del Libro Sacro, e che non accetta quelle che definisce ‘libertà occidentali’. Kabira è una ragazza, e una ragazza deve camminare in fretta, con la testa china, come per contare i propri passi. Non deve mai alzare gli occhi né lasciarli errare a destra o a sinistra della strada perché, se il suo sguardo incontra quello di un uomo, è una “charmuta”, una poco di buono, insomma. Non conosce divertimenti né giochi. Per lei un unico dovere: servire il padre ed i fratelli. Kabira ha sempre vissuto avvolta dalla morsa soffocante della famiglia: “Non potevo mai uscire da sola o con delle amiche. Neanche giocare davanti la porta di casa mi era permesso. Ero una ‘femmina’ e le femmine devono stare in casa. Me lo diceva sempre mio padre. Mal sopportavo questa situazione: la vita da reclusa non mi è mai andata bene. Ben cosciente delle conseguenze, appena mio padre e i miei fratelli si allontanavano un attimo da casa, io ne approfittavo per andarmene in giro a bighellonare. Al ritorno, come previsto, c’era mia madre ad aspettarmi col bastone in mano: la sola complicità che mi concedeva era il silenzio. Mio padre, infatti, non ha mai saputo la verità”. In Afghanistan, presso le comunità musulmane, è tradizione che il matrimonio venga stabilito dai genitori, i quali mercanteggiano fra di loro al fine di ottenere una ricca dote.

“All’età di 19 anni – racconta – mi presentarono l’uomo che avrei dovuto sposare”. In un tal contesto le donne non hanno assolutamente voce in capitolo e sono chiamate ad obbedire incondizionatamente al volere della famiglia. Kabira però è diversa. Lei è una giovane donna forte e decisa: ha grandi sogni per il futuro e non tollera che siano degli uomini a scegliere per lei. Ha già incontrato quello che crede l’uomo della sua vita: si chiama Nirmal. E’ un giovane di 22 anni, alto e forte, lavora come muratore per una ditta di costruzioni. Si sono conosciuti durante il “maouloud”, un’importante festività musulmana celebrata in memoria della nascita del profeta Maometto. E’ stato subito amore. “I nostri incontri erano brevi e clandestini – spiega Kabira – ci vedevamo ogni due giorni, quando andavo a prendere l’acqua al pozzo vicino casa”. La storia tra i due segue questa trafila per quasi un anno, ma continuare così è difficile e soprattutto rischioso. “Se mi avessero visto in sua compagnia, tutto il villaggio mi avrebbe preso per una charmuta”. Così Kabira sceglie l’unica strada possibile: la fuga con l’uomo che ama. Con la complicità di una cugina si mette in contatto con una donna che per soli 50 dirham, poco meno di 5 euro, accetta di ospitarli finché non troveranno una sistemazione definitiva.

Proprio come la più classica delle “fuitine” siciliane, la bravata dei due giovani non passa certo inosservata. Schiacciato dal disonore provocatogli dal gesto della figlia, il padre giura vendetta e taglia qualsiasi legame con lei: “Per lui io ero morta”. Kabira ora esprime col corpo il dolore e il tormento di quei giorni: le mani strette attorno alla tazza di tè e lo sguardo freddo e distaccato. “Non è stato facile, ma dovevo: era in gioco la mia felicità” – sussurra. “Dopo lo sgomento iniziale, di me non si parlava più: era assolutamente proibito fare il mio nome in presenza di mio padre”. Nel frattempo, i due “impudenti”, costruiscono passo a passo la loro piccola famiglia. “I soldi erano pochi – ammette – ma riuscivamo ad andare avanti”. Nel pieno rispetto della tradizione islamica, Nirmal, almeno inizialmente – precisa Kabira – si dimostra marito gentile, premuroso e attento.

Le cose però cominciano a precipitare quando perde il lavoro: “Diventò irascibile e violento. Pretendeva da me dei servizi particolari e se non obbedivo, erano botte”. Arriva anche una gravidanza a complicare le cose: non un maschio, bensì una femmina, che con il suo dolce visino riesce a scatenare ancor più l’ira del padre. Kabira spiega che nel suo Paese una moglie deve innanzi tutto dare al marito un figlio maschio, il quale con il suo lavoro porterà ricchezza e onore alla famiglia. Partorire una femmina è una sorta di disgrazia, in quanto non solo non è utile al lavoro, ma è “insieme al cane e al maiale, uno degli esseri che distoglie dalla preghiera” (Corano 4,34, ndr). “Che oltraggio fu per Nirmal – commenta. Non la smetteva di imprecare contro di me, come se fossi stata io a scegliere. Se avessi potuto, avrei scelto certamente un maschio: un’esistenza libera!”. Così, dopo solo pochi mesi dal matrimonio, tutte le aspettative e i sogni di Kabira crollano inesorabilmente.

La sua folle ribellione non era servita a nulla: non era felice, né tanto meno libera. La sua condizione era la stessa di migliaia di altre donne musulmane. Come spesso accade Kabira era passata dalla “dittatura” del padre a quella del marito. I giorni passano e la vita accanto a quel uomo diviene sempre più dura. L’unica gioia per Kabira è veder crescere la sua piccolina, vederle fare i primi passi e pronunciare le sue prime parole. Ogni volta che la guarda però, un’angoscia l’assale: un giorno, non molto lontano, anche lei sarà privata della libertà, anche lei subirà l’oltraggioso potere maschile. Non potrà più ne camminare né parlare liberamente. Anche lei sarà solo una mosca intrappolata sotto una campana di vetro. E così, con questa pena nel cuore, Kabira inizia a progettare una nuova fuga.

“Per mia figlia volevo una vita migliore della mia, una vita in cui non avrebbe dovuto rimpiangere il fatto di essere nata donna”. Questa volta però l’impresa di Kabira sembra essere più difficile: è controllata a vista dal marito, non c’è modo di allontanarsi da casa se non in sua compagnia. Come fare allora? In che modo tentare la fuga? Non c’è da disperare, per una come Kabira un modo si trova sempre, “Basta avere la bontà di aspettare il momento giusto”. Ed ecco che l’occasione bussa alla porta: è lo zio di Nirmal che viene a trovarlo perché gli ha procurato un lavoretto. “Roba da poco – racconta – ma con un grande pregio: lo teneva fuori di casa dall’alba al tramonto”.

Approfittando dell’assenza di Nirmal, Kabira e la sua piccola escono di casa con un unico scopo: trovare il modo di non rimetterci mai più piede. Nel cuore di Kandahar, tra le affollate vie del mercato, non le risulta difficile imbattersi in “affari poco leciti”, e d’altronde è quello che sta cercando. Riesce a contattare un uomo che si occupa di viaggi clandestini: con il mare buono, in tre giorni al massimo, è possibile arrivare in Italia. Ora il sogno di libertà è “il bel paese”. Di certo la prospettiva di un viaggio clandestino su di un barcone malmesso non la rassicura, ma una volta giunta a destinazione, tutti i suoi sforzi saranno ripagati. “Immaginavo che la traversata non sarebbe stata semplice, ma la realtà superò di gran lunga ogni mio incubo”. La forza del mare, la furia del vento, la fame e la sete che non danno tregua, ma soprattutto la paura di non farcela. “Ero terrorizzata – racconta – stringevo Safiya tra le mie braccia e pregavo Allah che ci proteggesse”. Dopo due giorni d’inferno, ecco finalmente la costa. Allo sbarco, presso Lampedusa, la Guardia Costiera interviene con i primi soccorsi. Kabira e la sua bambina sono salve e una nuova vita le attende. “Allah è stato buono con me, nonostante ciò che avevo fatto, ha riconosciuto la mia buona fede e mi ha aiutato”.

Adesso in Italia, Kabira, conduce una vita semplice, fatta di piccole conquiste quotidiane. Non porta il velo e i suoi lunghi capelli brillano del colore del fuoco. Non più il “chador”, tradizionale abito musulmano, ora Kabira porta i jeans. Simbolo di ribellione e lotta per antonomasia, per lei i jeans sono molto di più: sono il suo urlo di libertà al mondo intero, un urlo dello stesso colore del cielo, quel cielo sopra di noi che ci rende tutti uguali o quasi. È fuggita dalla propria famiglia, ha abbandonato il marito e la propria terra: ora è sola in un Paese straniero, ma non ha paura. Ha conquistato la libertà e nessuno potrà più toglierla. Con i suoi sacrifici ha costruito un futuro migliore per sé e per la sua piccola. Ha preso possesso della propria individualità, del rispetto e della dignità che le erano stati rubati.

“Ora sono io la padrona della mia vita” – afferma in tono deciso. Non ha rimorsi né rimpianti, ma solo un piccolo sogno nel cassetto: un’auto. Non chiede di più, solo una vecchia auto che la possa portare ovunque lei desideri, libera per sempre.


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