SE I GATTI PARLASSERO/ Un vecchio circo, piccolo, ai margini della città. Tetto a strisce, colori consumati da sole e pioggia: Si presenta così lo scenario dell'ultimo live dell'ex Underground
‘John Cale: Circus live’: un gran concerto in un circo senza animali
Circus Live
John Cale
2007
EMI
Un vecchio circo, piccolo, ai margini della città. Tetto a strisce, colori consumati da sole e pioggia. Niente neon, lampade fluorescenti, effetti speciali; niente di tutto ciò. Vecchie lampade pendenti dal
soffitto, e sotto di loro un velo trasparente grigio e viola, a decidere la luce su palco e spettatori. Si presenta così lo scenario dell’ultimo live di John Cale: lui a dirigere una striminzita ed essenziale orchestra di tre elementi, nel mezzo passano trapezisti, clown, giocolieri, tutti sotto forma di canzone; fanno la loro esibizione e poi lasciano ad un altro brano l’attenzione degli spettatori.
Quasi ipnotico, il tutto; volutamente ipnotico. Lui, John Cale, direttore d’orchestra e deus ex machina, sembra uscito da un quadro di Francio Bacon. Se l’uomo non è di vostra conoscenza dubito che al primo impatto questo Circus Live sia il disco più indicato per farsi le presentazioni: potrebbe essere rifiuto immediato, o amore a primo
ascolto. Se siete amanti dei decibel non risparmiati e del microfono preso a morsi anteporrei “Sabotage”, il live registrato non pochi anni fa al mitico CBGB’S di New York (locale di culto, ahinoi da poco
chiuso per mancanza di fondi). Se invece amate le atmosfere intimiste potrebbe essere perfetto
“Fragments from a rainy season”: lui da solo, piano e voce a ripercorrere una carriera con l’aggiunta di alcune perle altrui (in particolare la cover di Hallelujah di Leonard Cohen; Cale è
stato il primo ad eseguire questo brano che ora conta plurime versioni: J.BuckIey, B. Dylan, Bono, Elisa, E. Finardi, W. Nelson etc..); se vi capita per le mani “John Cale comes alive”, altro live, anni ’80,
passate direttamente oltre.
Su questo “Circus Live” vale invece la pena di soffermarsi. Pur non essendo intimista come “Fragment of a rainy season” presenta momenti di gran magnetismo; pur essendo meno duro di “Sabotage”
contiene brani ove Cale guida la band in un rock deciso ed essenziale.
La scaletta ricopre un po’ tutto il percorso musicale di Cale, e già l’iniziale Venus in furs ci riporta a quel “Velvet Underground and Nico” che esattamente quarant’anni fa (marzo 1967)
cambiava il corso delle cose. Qui la viola di Cale è più morbida (e ben lontana dalle sferzate che Jane Scarpantoni impartisce in “Rock’n’Roll Serenade”, doppio cd testimonianza d’un recente tour
di Lou Reed) e a quel disco lui attinge per proporre un’originalissima rilettura di Femme fatale, fra un brano e l’altro usciti dalla penna di questo signore proveniente dal Galles, produttore eccelso
(basterebbe in merito citare “Horses” di Patti Smith e “Bryter Layter” di Nick Drake) oltre che gran musicista. Il mio gradimento per questo concerto (registrato in uno dei classici luoghi del rock odierno, il
Paradiso di Amsterdam) è aumentato notevolmente dopo un po’ di ascolti, ed apprezzo sempre di più le versioni proposte, oltre ad alcune cover di valore: Pablo Picasso (di quell’originalissimo personaggio che è Jonathan Ritchman), l’ormai evergreen Walkin the dog (dello storico
soulman Rufus Thomas), Style it takes (di Lou Reed) e Heartbreak hotel (portata alla celebrità da Elvis Presley ), quest’ultime due proposte in chiusura di concerto prima di una sempre più convincente Mercenaries (Ready for war). La versione di questo brano dedicato ai
mercenari nel suo essere non detonante come in “Sabotage” (al suo primo ascolto in “Circus” mi aspettavo da un momento all’altro un’esplosione di chitarre, che non arriva mai) risulta alla lunga
forse più convincente: meno d’urto ma molto più penetrante e … di riflessione (alla lista delle città citate vi è ora anche Teheran), quasi quella sua calma apparente stesse a significare una resa ai
tempi che viviamo. O forse più che una resa uno stimolo sotterraneo, a insinuarsi e far riflettere sulle verità dai piedi d’argilla di cui siamo ormai ricoperti. Per chi conosce “Rock’n’roll Serenade” di Lou Reed, “Circus” al confronto ti accerchia invece che prenderti di petto, e chissà che ne penserebbero Nico, Steeriling Morrison e Moe Tucker, gli altri
componenti dei Velvet Underground, dei quali, due, ormai non più qui.
Basterebbero le camere soliste di Cale, Reed e Nico a ricordare quell’ensemble irripetuto ed irripetibile; non c’è gruppo nella storia del rock la cui produzione solista dei vari componenti possa pensare
di poter competere qualitativamente con la loro.
Quarant’anni che hanno cambiato la storia, non solo della musica, di cui “Velvet Underground and Nico” è seme inossidabile, e questo “Circus” frutto cresciuto su un ramo dal fogliame non appariscente, ma fondamentale per chi ama la musica ed il saperla suonare.
Quale neo del disco vi segnalo alcuni vocalizzi (sparuti, in verità) di cui farei volentieri a meno, e se leggendo non vi siete ancora annoiati vi propongo il nome di quattro pittori: quel Bacon dal cui
pennello Cale potrebbe essere uscito, Andy Warhol, sponsor dei citati Velvet Underground, Pablo Picasso e Magritte (il titolo di due brani presenti nell’album in questione). Shakerate le loro tele, trasformate il tutto in rock e una spruzzata d’elettronica ed avrete un’idea
di “Circus Live. A voi il rischio (chi risica rosica).