In Argentina qualcosa sta cambiando

“Mettiamo le cose in chiaro: non parlerò dei militari, non parlerò della dittatura, non parlerò dei desaparecidos, non parlerò delle lotte passate delle Madri”. Tre giorni, prima di poter intervistare Hebe de Bonafini, la presidente della Madri de Plaza de Mayo. Alla fine Hebe concede un quarto d’ora di tempo, nella sede dell’Associazione, al centro di Buenos Aires. Dodici minuti, per l’esattezza: tre se ne sono gia andati nel lungo decalogo di argomenti di cui non si parlerà. “Dunque: che cosa mi vuole chiedere?”. Faccia lei, Hebe. “Vieni. Ti mostro l’Università che abbiamo fondato. Ti parlo del neoliberismo e della globalizzazione”.

Non fa molto per essere simpatica. Probabilmente sente di non averne bisogno. Da più di un quarto di secolo è il simbolo della lotta alla dittatura e della protesta delle madri dei desaparecidos: le vittime della repressione durante l’ultimo golpe militare. Non è più necessario che  promuova, all’estero, la sua immagine: vengono giornalisti da tutto il mondo per intervistarla. Soprattutto in questi giorni, in cui ricorre il trentesimo anniversario del colpo di stato del 24 marzo del 1976. I giornalisti formano diligentemente la fila, aspettando che venga il loro turno, i loro quindici minuti. Lei, Hebe, li accoglie così: secca, apparentemente infastidita. Abbiamo smesso di offrirvi il nostro dolore, dice: parliamo dei problemi dell’Argentina di oggi. “Abbiamo socializzato la maternità, abbiamo trasformato il dolore di madri in rabbia, orgoglio, analisi politica. Lotta, infine”.

Sinceramente questo mi sembra uno slogan, Hebe. “Non lo è. Non è stato facile: la maternità è una cosa privata, intima. Metterla al servizio della società può sembrare un atteggiamento duro, irreale. La gente non ci perdona questo, che piangiamo per i nostri figli e, assieme, per tutti gli sfruttati della terra. Che denunciamo i carnefici della dittatura argentina e assieme i carnefici del neoliberismo e della globalizzazione. Facciamo confusione, dicono i nostri nemici. Inquiniamo la memoria dei nostri morti. I nostri nemici vorrebbero che ce ne stessimo zitte e buone, a piangere ognuna il proprio figlio, il proprio marito, che ci chiudessimo nel nostro dolore”.

L’Università Popolare che hanno fondato le Madri è a due passi dal Palazzo del Congresso. Ha le pareti imbiancate di fresco. Forma alla professione di giornalista, sociologo, regista. Non rilascia titoli validi legalmente: forma professionalmente, e basta. Hebe ne va orgogliosa. E’ soprattutto un osservatorio, un centro di documentazione e un punto di riferimento per i movimenti no-global di tutta l’America Latina. L’emeroteca è aggiornata sugli ultimissimi saggi. Ci sono anche le foto di piazza Alimonda e di Carlo Giuliani: sdraiato al suolo, con le braccia aperte in una sorta di versione aggiornata della crocifissione. “Vedi, quello che ti dicevo. Ogni movimento ha i suoi martiri. Non crediamo che i nostri figli fossero migliori degli altri rivoluzionari. Erano rivoluzionari, anche loro, come tutti coloro che combattono contro un’ingiustizia, in qualunque parte del mondo, in qualunque epoca: rivoluzionari come tutti coloro che gridano contro un sistema che ritengono ingiusto. Che c’entrano i nostri morti con la rivoluzione del Chiapas o con la guerra in Iraq, ci chiedono. C’entrano, eccome, rispondo io. Dietro la violenza subita, in luoghi e in tempi diversi, c’è sempre lo stesso progetto di un sistema che vuole i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. In certi periodi e in certi momenti ha bisogno della ferocia dei militari per affermarsi, altrimenti bastano le regole delle democrazie parlamentari. Come i dieci anni di Menem in Argentina. Loro, i nostri nemici, questo non vogliono capirlo”.

Noi, loro. Non le pare un linguaggio da trincea, Hebe? E’ come se parlasse di una guerra ancora in atto. “Forse no. Solo adesso, forse, questa guerra sta per finire. Solo adesso iniziamo a pensare che nel governo non ci siano più nemici. Il nuovo presidente, Nestor Kirchner è il primo che ha fatto una campagna a favore dei diritti umani, ponendo in discussione tutte le leggi precedenti che indultavano i repressori. Finalmente le cose stanno per cambiare”. Così le madri di Plaza de Mayo hanno rinunciato ad alcuni momenti di una antica liturgia della memoria. Come le manifestazioni di protesta dinnanzi alla Casa Rosada, la sede del Governo. Avevano iniziato nel 1977, chiedendo notizie dei propri figli – studenti militanti, giovani operai sindacalizzati – prelevati dalle proprie case da militari in borghese e poi – definitivamente – scomparsi. O meglio, desaparecidos: una delle poche parole del dizionario argentino sovraesposte a una tragica internazionalizzazione. La prima volta che si videro le Madri, un giovedì, nella piazza principale di Buenos Aires – a chiedere notizie dei loro cari, a denunziare gli abusi della repressione – i militari regalarono loro un sorriso di disprezzo: le pazze di Plaza de Mayo. Perché le madri, le vere madri erano altre, secondo i militari: erano le donne di casa, gli angeli del focolare, coloro che educavano i loro figli senza metter loro grilli per la testa. Non alla libertà, ma al rispetto degli ordini e dei valori ultracattolici che il regime aveva imposto come cultura di Stato.

Loro, le donne, hanno continuato a manifestare, per 29 anni, ogni giovedì. Anche dopo che il governo militare è caduto. Anche dopo che si è scoperto che si nascondevano, tra le pieghe di quella che tutti fingevano di credere una pazzia, le cifre di una dolorosa realtà: trentamila giovani torturati, uccisi, e poi interrati in fosse comuni o lanciati dagli aerei della Marina nell’oceano Atlantico. Perché, avete continuato? “Perché nulla è cambiato, dopo la dittatura: il sistema economico contro il quale protestavano i nostri figli, il neoliberismo che si è affermato con il colpo di Stato del ’76, ha continuato a consolidarsi anche dopo, senza più bisogno di militari golpisti”. Sono le stesse cose che ha detto il presidente Kirchner, ieri, durante la manifestazione pubblica per i trent’anni dal golpe. “Sì: infatti è per questo che sembra che qualcosa stia cambiando. Per la prima volta, in questi giorni un capo di Governo ha sostenuto quello che noi dicevamo da tempo: che le responsabilità non sono solo degli assassini, ma anche di coloro che vollero impiantare, a prezzo di sangue, un capitalismo selvaggio; di coloro che sapevano e tacevano. Per questo, dicevo, forse adesso non abbiamo più nemici, nella Casa Rosada. Sappiamo che i nostri figli sono morti. Solo vogliamo che adesso il loro sacrificio abbia un senso”.

E’ solo questo, il punto? Non c’è il rischio, Hebe, che questa lettura – economica, sociale – della dittatura sfumi il dolore umano che essa ha portato? Il vostro dolore di madri, in particolare? “Il dolore è un affare privato. L’ingiustizia, quella sì, è un affare pubblico”. Anche questo sembra uno slogan, in tutta franchezza. “Credi”? Hebe guarda l’orologio, sembra intenzionata a concedere una proroga di tempo. “Sapresti descriverlo, se ti raccontassi quello che ho provato io perdendo due figli. Quello cha hanno sentito le altre trentamila madri, durante la dittatura?” Chissà: magari potrei provare a farlo. “In spagnolo non c’è una parola per definire una madre che ha perso un figlio. Una donna che ha perso il marito si chiama viuda, un figlio che ha perso una madre huérfano. Una madre che ha perso il figlio, non ha definizioni. In italiano?” No, neanche in italiano esiste una parola del genere. “E neanche in francese, neanche in portoghese, neanche in inglese. Credi ancora di poter descrivere il senso di una mancanza che nessuna lingua sembra in grado di poter definire?” Non aspetta risposta, Hebe. In fondo, non era neppure una domanda. E, del resto, i quindici minuti sono già scaduti da un pezzo.


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