Una mobilità a senso unico, poche borse di studio e un investimento nel settore che fa dell'Italia il fanalino di coda dell'Europa. A scattare la fotografia impietosa è la Fondazione Res. Il rettore di Palermo: «Da noi dato in controtendenza, ma ragazzi vanno dove c'è lavoro»
Immatricolazioni in calo e studenti in fuga In Sicilia un terzo emigra verso il nord
Un malato grave. Anzi gravissimo. Soffre l’università in Italia, vittima di scarsi investimenti, di responsabilità locali e centrali, ma anche di politiche per il diritto allo studio che hanno accentuato il divario tra gli atenei del Nord e del Sud. A stare peggio, neanche a dirlo, sono le regioni del mezzogiorno: immatricolazioni in calo, una mobilità studentesca a senso unico, poche borse di studio e una qualità della ricerca che presenta valori inferiori rispetto alla media. Una fotografia contenuta in una ricerca della Fondazione Res presentata oggi a Villa Zito, a Palermo.
Un’indagine che scatta un’istantanea impietosa: l’Italia è l’unico tra i Paesi avanzati che non investe sull’Università, destinando al fondo di finanziamento ordinario appena 7 miliardi contro i 26 della Germania. Con una contrazione negli ultimi anni pari al 22,5 per cento. Fanalino di coda in Europa e con una ripartizione dei finanziamenti a livello nazionale che finisce per penalizzare gli atenei del Sud con tagli di circa il 12 per cento e con una riduzione di un quinto per le Isole. Perché il meccanismo di finanziamento premia le regioni che spendono di più che non sono quelle del Sud.
Per la prima volta nella sua storia, il sistema universitario italiano è diventato più piccolo: rispetto al 2008, periodo di massima espansione, oggi gli studenti immatricolati si sono ridotti di oltre 66 mila (-20 per cento). Né va meglio se si considera il dato dei docenti (scesi a meno di 52 mila; -17%) e dei corsi di studio (4.628; -18%). Italia in controtendenza, dunque, con un «disinvestimento molto forte» nel comparto che la rende fanalino di coda in Europa. Spetta, infatti, al Belpaese l’ultimo posto tra gli stati membri per numero di giovani laureati, appena il 23,9 per cento, ben lontano dall’obiettivo europeo che prevede il raggiungimento entro il 2020 del 40 per cento di laureati.
«Si va disegnando – si legge nel rapporto – un sistema formativo sempre più differenziato fra sedi più e meno dotate (in termini finanziari, di docenti, di studenti, di relazioni con l’esterno), con le prime fortemente concentrate in alcune aree del Nord del paese. Le nuove regole di governo del sistema stanno accentuando questa biforcazione». Così oltre il 50 per cento del calo degli immatricolati è concentrato nel Mezzogiorno (-37.000 negli ultimi dieci anni); così come maggiore al Sud è la quota di studenti che abbandona gli studi universitari dopo il primo anno (il 17,5 per cento a fronte del 12,6 per cento al Nord).
Meno studenti nelle università del Mezzogiorno e sempre più in fuga. Una mobilità a senso unico: dal sud al nord con un terzo degli immatricolati siciliani che lascia l’Isola per completare il proprio percorso di studi negli atenei del settentrione. «Su Palermo c’è un dato in controtendenza che è quello degli iscritti al primo anno in lieve aumento rispetto al passato» spiega a MeridioNews il rettore di Palermo, Fabrizio Micari. Un’emorragia dovuta, almeno in parte, per il numero uno di Viale delle Scienze, alla carenza di possibilità occupazionali nell’Isola. «I ragazzi vanno dove c’è lavoro – dice -. Così, ad esempio, a Ingegneria la fuga nel passaggio dalla triennale alla magistrale che oscilla tra il 20 e il 30 per cento è legata al fatto che il lavoro è nelle regioni settentrionali. Si privilegiano le lauree che garantiscono una maggiore prospettiva occupazionale e ci si sposta verso il nord perché è lì che si trova più facilmente occupazione». A dimostrarlo per Micari c’è anche la difficoltà oggi di utilizzare il titolo di studio per trovare una migliore collocazione lavorativa, soprattutto restando al sud.
La soluzione? Passa da uno «sforzo di sistema». Insomma, occorre fare rete, perché «l’università è un pezzo del territorio e da soli possiamo fare molto poco. Al contrario dobbiamo collaborare con le istituzioni per promuovere un percorso di crescita del territorio. Serve l’impegno di tutti». Atenei, istituzioni locali e nazionali, ma anche della Regione. «C’è stata poca attenzione in questi anni al mondo dell’università – denuncia -: lo dimostra il fatto che da noi il diritto allo studio è garantito a un terzo degli immatricolati». Nel 2013-2014 nelle regioni del Sud circa il 40 per cento degli idonei non è riuscito a beneficiare delle borsa per carenza di risorse, una percentuale che nell’Isola sfiora il 60 per cento.
Certo anche l’Università ha le sue colpe. Soprattutto sul fronte dell’abbandono del percorso universitario. «Il dato sfiora il 15 per cento – spiega Micari -, una percentuale legata in parte alla formazione iniziale dei nostri studenti che sconta qualche carenza, ma anche a una minore attenzione nel sostegno dei ragazzi nella fase iniziale del loro percorso. E su questo lavoreremo per incrementare il tutorato». E poi c’è il dato dei fondi. Di fronte a tagli sempre più consistenti, le università restano spesso uno stipendificio. «Per docenti e personale tecnico l’ateneo spende 200 milioni su un bilancio di 250 milioni. Costi fissi su cui non c’è margine di manovra». Colpa di un’eredità dei decenni passati, quando anche il mondo universitario era considerato «un pezzo del sistema pubblico e i criteri di accesso non sempre erano meritocratici».