Il viaggio dell’orrore nel racconto dei sopravvissuti «Coltellate, sprangate e cinghiate per restare in stiva»

Mohammed ha 54 anni. Lui per partire, insieme alla sua famiglia, ai trafficanti di esseri umani ha pagato 4mila dollari. A Tripoli lavorava come decoratore, prima che l’instabilità politica lo spingesse a lasciare il paese alla volta dell’Europa. Un viaggio iniziato 15 giorni prima di imbarcarsi a Zuwara sul barcone della morte, nella cui stiva, ammassati come bestie senza aria né acqua, hanno perso la vita 52 migranti. Agli investigatori che lo hanno ascoltato nell’ambito dell’indagine che ha portato al fermo di 10 presunti scafisti (7 marocchini, 2 siriani e un libico) ha raccontato i drammatici momenti vissuti prima e durante la traversata nel Canale di Sicilia.

«Ci hanno portato in un casolare dove c’erano altre 30 famiglie – ha detto -, lì siamo rimasti chiusi per circa 14 giorni senza neanche uscire un istante. All’interno c’era un uomo che ci impediva di uscire e per mangiare ci chiedeva dei soldi, altrimenti ci lasciava digiuni». Solo l’inizio dell’inferno. Perché dopo due settimane trascorse così, Mohammed e la sua famiglia sono stati trasferiti in un’altra casa «molto vecchia e senza servizi igienici e acqua». Qui sono rimasti sei ore, in attesa di essere trasferiti a bordo di un camion frigorifero in un altro immobile vicino al mare, dove «c’erano tante altre persone pronte partire».

«La nave madre, un barcone in legno, stazionava al largo – racconta ancora Mohammed ai soccorritori -, l’abbiamo raggiunta a bordo di un piccolo gommone. Eravamo in parecchi, tanto è vero che non abbiamo trovato posto per sederci e io per la maggior parte del viaggio sono rimasto in piedi». Mohammed e la sua famiglia sono stati fortunati. Stavano sopra coperta e dalla loro posizione hanno potuto osservare il trattamento riservato ai compagni stipati nella stiva. «Durante la navigazione mi sono accorto – dice ancora – che una persona accanto la botola di prua, quella che dava l’accesso alla stiva, colpiva con forza con un coltello le persone che mettevano la testa fuori. Con tono minaccioso intimava loro di ritornare giù, altrimenti li avrebbe uccisi».

Coltellate, colpi di spranga e bastone, cinghiate. Un trattamento, che il gip di Palermo, Giangaspare Camerini, nel provvedimento di convalida del fermo dei dieci presunti scafisti, non esita a definire «inumano e degradante». «Un criminoso e programmato sistema disumano di gestione dell’ordine a bordo, applicato concordemente da tutti i membri dell’equipaggio», per il quale il giudice per le indagini preliminari ha disposto la custodia cautelare in carcere, resa necessaria anche dal pericolo di fuga e dal rischio di inquinamento probatorio.

Ad incastrare i dieci arrestati ci sono appunto le testimonianze dei sopravvissuti della traversata dell’orrore. Oltre 500 migranti sono stati soccorsi dal pattugliatore svedese Poseidon, che li ha condotti giovedì notte nel porto di Palermo, insieme a un “carico di morte”: 52 migranti, deceduti per asfissia nella stiva larga appena quattro metri e alta un metro e cinquanta.

Mahammad ha 25 anni, è pakistano. Anche lui è un sopravvissuto. Nel barcone della morte ha visto morire decine di compagni di viaggio. Nella stiva ci è rimasto fino all’arrivo dei soccorritori. «Quando sono salito a bordo mi hanno costretto a scendere giù colpendomi con dei bastoni -racconta ai magistrati -. Agli uomini dell’equipaggio abbiamo detto ripetutamente che c’erano poco ossigeno e poca acqua e che la gente cominciava morire ma nonostante tutto ci impedivano di uscire». Per la traversata lui ha pagato mille dollari e prima di partire, per circa un mese, è rimasto segregato nella stanza di un appartamento a Tripoli, insieme ad altre 60 persone. «Non mi picchiavano, ma mi davano poco cibo – dice -. Dopo un mese ci hanno fatto salire su un camion che aveva poca aria e abbiamo viaggiato circa dieci ore prima di raggiungere un’imbarcazione che ci aspettava a Zuwara». 

Racconti di violenze che si susseguono, secondo un copione identico. Aamir, pakistano, 22 anni, ha pensato di non farcela. Ha perso i sensi più volte, perché «all’interno del vano motore non si riusciva a respirare, c’era il gas di scarico che fuoriusciva e non avevamo acqua da bere. Ogni volta che cercavamo di uscire per prendere aria ci picchiavano con violenza con bastoni di legno e spranghe di ferro». Lui è stato ferito alla schiena con un coltello, ma è fortunato. È vivo. «Ho visto morire davanti ai miei occhi circa 4-5 persone per asfissia e per mancanza di acqua. Anche io mi sentivo molto male e ho pensato di morire» ammette.

La distribuzione tra sopra e sotto coperta dei migranti, almeno secondo il racconto dei testimoni ascoltati dai magistrati della Procura di Palermo, dipendeva dall’etnia: gli africani, i pakistani e i cittadini del Bangladesh sono stati sistemati all’interno, mentre i magrebini fuori. «Un soggetto libico ci ordinava di entrare all’interno della nave dove vi erano altri quattro soggetti libici che ci sistemavano imponendoci di sederci a terra a gambe divaricate, uno dietro l’altro, cercando così di guadagnare spazio» racconta il pakistano Aneeq, 22 anni. Lui è riuscito ad uscire dalla stiva e a salvarsi. «La situazione all’interno era insopportabile perché mancava l’aria e l’acqua, la gente sveniva, si sentiva la puzza del motore, entrava acqua di mare. Ricordo che io ho cercato di uscire ma sono stato colpito in testa con un tubo». Aneeq ce l’ha fatta. Dopo quattro ore chiuso nella stiva, nonostante le botte e la violenza inaudita dei suoi carnefici, è riuscito a uscire. Ha proseguito il viaggio sopra coperta. «In quella stiva ho perso mio fratello e alcuni amici che conoscevo da tempo» conclude. Morti asfissiati senz’aria né acqua. Nel cuore il sogno di una vita diversa. 


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