L'inchiesta Plastic Free fa luce sul terzo capitolo della vita del capomafia di Vittoria, dopo la parentesi con i magistrati. Il 60enne avrebbe puntato su una svolta imprenditoriale, non prima di avere sperato di recuperare i soldi dati in passato ai sodali
Il ritorno a casa del boss ed ex pentito Claudio Carbonaro «Pensava a un clan fatto da ex collaboratori di giustizia»
Come uno zio dall’America. Con la differenza che la fortuna, anziché portarla, la voleva indietro e che più che provenire da un altro continente, arrivava direttamente da un altro mondo. Quello dei pentiti. Il ritorno a casa di Claudio Carbonaro, nel 2015, deve avere fatto questo effetto nella malavita vittoriese, specialmente dentro quella Stidda guidata storicamente da un clan che dalla famiglia del 60enne prende metà nome. L’altro è quello di Carmelo Dominante, con il quale i Carbonaro furono protagonisti della scena criminale degli anni Ottanta e Novanta, con tanto di guerra di mafia condotta in prima linea. Tutti fatti che, nel caso di Claudio, per lungo tempo, con la decisione di collaborare con la giustizia, sono apparsi relegati al passato ma che invece si sono riproposti ieri, in occasione del suo arresto nell’operazione Plastic Free.
È proprio la sua la figura di maggiore spicco tra le 15 persone arrestate su disposizione del tribunale di Catania, che ha accolto larga parte delle richieste di misura cautelare proposte dalla Dda etnea. Stando alle carte dell’inchiesta, Carbonaro, dopo essere uscito dal programma di protezione, sarebbe tornato a Vittoria con il chiaro intento di mettersi alla guida di un gruppo criminale. Prima però avrebbe provato a fare un’altra cosa: recuperare i soldi affidati a una serie di uomini di fiducia con l’indicazione di riciclarli in attività imprenditoriali. L’uomo sarebbe andato a bussare alle porte di diversi esponenti della criminalità organizzata vittoriese, molti dei quali finiti negli anni scorsi al centro di fatti di cronaca e provvedimenti dell’autorità giudiziaria.
Questo è il caso di Elio Greco, a gennaio destinatario di un sequestro da 35 milioni di euro e pochi mesi dopo arrestato per tentato omicidio, di Giombattista Puccio, divenuto re degli imballaggi nel settore ortofrutticolo, ma anche di Giovanni Cilia, l’uomo capace di fare affari con le ‘ndrine calabresi in Olanda tra fiori e droga, e Giovanni Donzelli, imprenditore specializzato nella raccolta delle coperture in plastica usate nelle serre della Sicilia sud-orientale. Uno che lo stesso Carbonaro, ai tempi del pentimento, aveva definito «avvicinato» al clan. Le cifre in ballo sarebbero state esorbitanti. Il pentito Rosario Avila, in passato legato a Cosa nostra ma con stretti legami anche nella Stidda, ai magistrati prova a quantificare la somma data a Greco. «Non so se era un milione di euro, un miliardo di lire», sostiene. Tuttavia la pretesa di Carbonaro di godere del successo costruito con i soldi del suo clan sarebbe stata sostanzialmente disattesa: al netto di qualche piccola dazione, nessuno sarebbe stato in grado o con la voglia di rientrare da quei finanziamenti.
Davanti a quei rifiuti, la scelta di Carbonaro sarebbe stata quella di trasformarsi in imprenditore entrando nel mercato del riciclo delle plastiche, come socio occulto di Giovanni Donzelli e del figlio Raffaele, entrambi tra gli arrestati di ieri. Il boss avrebbe cercato e ottenuto il sostegno di Salvatore D’Agosta, figlio di Ciccio un tempo al vertice del clan Mammasantissima di Cosa Nostra, Giovanni Tonghi, e dei Minardi, famiglia conosciuta nella zona come i Barbani e dedita alla raccolta della plastica, da destinare alle aziende specializzate nello stoccaggio e trattamento della materia da riciclare. Grazie a tutti loro Carbonaro – e con lui i Donzelli – sarebbero riusciti a fare conquistare alla Sidi una fetta di mercato tale da estromettere dal business l’l’Ilpav di Pino Gueli e Giuseppe Di Martino, impresa concorrente dietro alla quale ci sarebbe stato Giombattista Puccio. Titta u ballerinu, così chiamato non per il talento da danzatore bensì per la capacità di inserirsi tanto in Cosa nostra che nella Stidda, avrebbe infatti tentato di estendere i propri affari anche nella plastica. Uno sconfinamento che non sarebbe stato ben accetto, se si considera che tra il 2014 e il 2015 le imprese a lui in qualche modo riconducibili, compresa la stessa Ilpav, subiscono una lunga serie di danneggiamenti. Tra incendi, proiettili lasciati davanti la porta, visite con pistola in mano e fogli con messaggi intimidatori e pestaggi di dipendenti.
A conservare un ricordo del ritorno in società di Carbonaro è Raffaele Donzelli, che insieme al padre avrebbe versato al boss il cinque per cento degli introiti ottenuti con la vendita della plastica. «Ho sentito aprire la porta, sono uscito e gli ho detto “Prego?” – racconta Raffaele a un collaboratore a marzo del 2015, senza sapere di essere intercettato -. Non l’ho riconosciuto: è bassino, aveva la coppolina, la barbetta bella precisa, parla italiano, ben vestito. Gli ho detto: “Ma sei Claudio?”. Ottenuta la conferma, l’accoglienza si sarebbe fatta più calorosa. Anche perché lo stesso Donzelli sa bene che Carbonaro è uno che «ha il grilletto facile, troppo facile, ne ha ammazzate persone». E in effetti sono una sessantina i delitti di cui l’uomo si è autoaccusato nella fase di collaborazione con le procure.
Nonostante il carisma riconosciutogli, Carbonaro, secondo il pentito Avila, avrebbe trovato le sue difficoltà a rientrare nei ranghi della mafia. D’altra parte è stato pur sempre un pentito. Ed è per questo, quindi, che avrebbe pensato a costruire un gruppo che negli ex collaboratori di giustizia avrebbe avuto la propria spina dorsale. «I parenti dei pentiti e gli stessi pentiti si riuniscono», mette a verbale Avila. Che poi in un certo senso chiarisce il perché della diffidenza provata dagli altri affiliati. «Perché è normale che vedendo una persona che li ha già accusati all’epoca…»