La misura di sostegno per l'indipendenza economica delle donne che hanno subito soprusi ha trovato posto nella Finanziaria con un budget di 200mila euro. «Bisogna fare in modo che i fondi non si perdano nei vari passaggi e pensare percorsi cuciti addosso alle persone», dicono a MeridioNews dai centri antiviolenza
Il reddito di libertà per le donne vittime di violenza «La denuncia non sia un elemento discriminante»
«Reddito di libertà». È una definizione di buon auspicio quella scelta per la misura di sostegno a favore dell’indipendenza economica delle donne vittime di violenza che, a titolo sperimentale, ha trovato posto nella Finanziaria in discussione all’Assemblea regionale siciliana. Per l’anno 2018, la spesa autorizzata sarebbe di 200mila euro. Uno strumento «che adottano i Comuni – si legge nell’articolo 55 – per assicurare il rispetto dei
diritti di ogni donna violata nella persona e ridotta
in condizioni di dipendenza e
sudditanza
anche psicologica». In sostanza, il reddito di libertà consiste in un patto tra la Regione e la donna beneficiaria che prevede il sostegno e la partecipazione a un percorso finalizzato
all’indipendenza economica
della donna «affinché sia, in seguito, in grado di adoperarsi per garantire a sé e ai
propri figli un’autosufficienza economica». L’accesso a questa misura, proposta dall’assessorato alle Politiche sociali, è riservato a donne vittime di
violenza, residenti in Sicilia, senza reddito, disoccupate,
inoccupate o con un reddito inferiore rispetto alle soglie indicate da calcoli Isee.
«Quasi tutte le donne vittime di violenza fisica o psicologica subiscono anche quella di natura economica». Preoccupa il commento fornito dall’avvocata Daniela La Runa, presidente della Rete Centri Antiviolenza di Siracusa. «Oltre a quelle che non hanno un’occupazione – racconta a MeridioNews – spesso arrivano da noi donne che lavorano ma che non possono essere libere nelle gestione dei soldi che guadagnano. Che spetta, invece, totalmente dall’uomo spesso disoccupato». Di donne, ne ha seguite e continua a seguirne molte. «Quelle con capacità economiche limitate hanno più difficoltà a uscire dalla condizione di violenza e cominciare un cammino di autonomia», sottolinea. Percorsi di inserimento lavorativo con borse lavoro o tirocini formativi, fondi per il sostegno abitativo, per le spese mediche, per l’accompagnamento degli eventuali figli esistono già e sono stati avviati anche negli anni passati. «Per alcuni di questi però – precisa Marica Longo, attivista e operatrice del centro antiviolenza Thamaia di Catania – il limite è che vengono erogati sotto forma di rimborso. Ma molte donne non hanno un budget iniziale da anticipare, né entrano in possesso dei documenti necessari da presentare come garanzia per accedere ai rimborsi». Primo fra tutti un contratto di affitto che, senza un regolare contratto di lavoro, è impossibile da ottenere. Senza possibilità di documentare le spese, però, non si accede ai finanziamenti. Insomma, un cane che si morde la coda «per un genere di violenza ancora troppo sottovalutato che mina la capacità delle donne di affrontare il mondo del lavoro».
A fare da tramite fra le istituzioni che erogano i finanziamenti e le donne beneficiarie finora sono stati i centri antiviolenza che, partecipando ai bandi, hanno scelto a quali delle donne prese in carico destinare i fondi. «Non basta che vengano stanziate le risorse – commenta Mariagrazia Patronaggio, presidente del centro antiviolenza Le Onde di Palermo – perché l’autodeterminazione di una donna è un percorso che va costruito attraverso un sistema di empowerment e non di tipo assistenziale». Dunque, non solo soldi ma soprattutto orientamento verso la conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, sia nell’ambito delle relazioni personali che in quello della vita politica e sociale. Nella nuova misura sperimentale della Regione, nessun riferimento viene fatto alla questione della denuncia. Cioè, non è specificato ancora se per usufruire del reddito di libertà la donna dovrà prima denunciare le violenze subite. «È una questione su cui si dibatte ancora molto – conferma l’avvocata La Runa – ma non occorre una querela per poter essere definite vittime di violenza. Anzi, questo non dovrebbe essere un elemento necessario per l’accesso ai fondi». La denuncia, dunque, non dovrebbe essere una discriminante. «Le donne devono essere lasciate libere di denunciare secondo i propri tempi – le fa eco Patronaggio – perché il rischio, in alcuni casi, potrebbe essere quello di esporle al pericolo di vita». Anche secondo l’esperienza dell’attivista catanese «i soldi non possono essere pensati come un incentivo alla denuncia, che è una tappa del percorso, e non si può pensare di accompagnare le donne verso l’autodeterminazione – aggiunge Longo – riproponendo dinamiche di forzatura della quali stanno proprio tentando di liberarsi».
Partendo dalle condizioni reali delle vittime di violenza «200mila euro sono solo delle briciole – lamenta La Runa – che non basteranno mai per tutte le donne che devono ricostruirsi. Credo che piuttosto che dare un budget eccessivamente limitato a una donna insufficiente per sostenerla a venire fuori dalla situazione di violenza, sarebbe più opportuno dare maggiori possibilità concrete ai centri antiviolenza nella costruzione dell’accompagnamento potendo confidare su personale preparato». Del resto, «i centri sono il luogo deputato ad affiancare le donne – sottolinea Patronaggio – e sarebbe giusto rafforzare le reti territoriali già esistenti». In questo caso, il ponte fra la Regione e la singola donna dovrebbero essere i Comuni. «I fondi troppo spesso si perdono nei vari passaggi», parla per esperienza l’attivista di Thamaia che di dispersioni e blocchi di finanziamenti ne ha già visti tanti. «Sarebbe opportuno che a gestire i percorsi verso l’indipendenza delle donne fossero i centri antiviolenza, creando progetti emancipatori individuali cuciti addosso alle donne e paralleli ai percorsi di uscita dalla situazione generale di violenza. Non si possono, però, escludere le donne che non si sono rivolte ai centri e per questo – conclude Longo – sarebbe importante collaborare con i servizi sociali comunali».