Uno spazio piccolo e mal illuminato si trasforma in perfetta scatola dell’assurdo e del reale. Aprendola, si scorgono i piedi di un uomo, forse morto. Ma ecco che appare un paggio con parrucca settecentesca a tenderti la mano: con eleganza ti rassicura e ti accompagna a sedere. È già tutto previsto, lo spettatore è parte de “La cerimonia (in morte del Re)” diretta da Marco Longo ed Emanuela Gutkowski. Un testo ispirato a Eugène Ionesco, messo in scena alla sala Magma di Catania.
È il paggio, che si rivelerà una guardia tutt’altro che formale ed impeccabile, ad annunciare con voce altisonante i personaggi della vicenda, i soli rimasti a corte. Si viene così a sapere che il re Bérenger – interpretato da Marcello Montalto -, sposatosi prima con la cinica e autoritaria Margherita, si è goduto gli ultimi anni con la spensieratezza e l’amore di Maria, sua seconda moglie. Ma l’arrivo di un medico, più astrologo che scienziato, conferma ciò che tutti prevedono, tranne il diretto interessato: l’imminente morte del re.
Bérenger, sempre più acciaccato e restio ad ammetterlo, comanda su un regno “tutto buchi, come un colapasta”, devastato da terremoti e siccità, per difendersi dai quali non si è mai presa nessuna misura preventiva. È un regno i cui abitanti si sono ridotti ad un migliaio di anziani e le cui finanze sono a secco.
È facile dunque saltare con la mente alla nostra realtà, al disastro ambientale, alla cattiva politica e alla crisi economica. Anzi, davanti allo spettatore si presenta un futuro sempre più prossimo, quello di un paese senza giovani e senza risorse, i cui leader hanno per anni pensato alla loro gloria trascurando i problemi reali. Viene voglia di incolpare il re, se non fosse per la compassione che provoca la sua condizione. E’ un uomo vissuto senza consapevolezza, non solo delle proprie responsabilità ma anche del proprio destino, quello di morire. Adesso si trova impreparato al momento dell’esame e la sua paura sfocia in allucinati deliri di onnipotenza e regressioni all’infanzia tra le braccia dell’amata Maria, moglie e madre insieme. Nonostante l’amarezza, scappa la risata. Effetto illogico imprescindibile nell’assurdo di Eugène Ionesco.
La drammaticità dell’accorgersi di aver vissuto una vita gloriosa, ma vana – e dell’impossibilità di riviverla -, viene continuamente distratta dai gesti inaspettati e comici dei personaggi che partecipano alla cerimonia. Il linguaggio è disarticolato, salta tra diversi e contrastanti umori e concetti: molto abili gli attori a sostenere il movimento della parola. Sempre puntuali gli interventi del “medico” Simona Agabiti, al cui personaggio hanno giovato le scelte registiche, significative in alcuni momenti, tuttavia un po’ superflue in altri. Un teatro che diverte, ma che allo stesso tempo richiama paradossalmente alla realtà, alle problematiche del mondo e dell’uomo contemporaneo.
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