Il petrolio nel mare di Gela: l’ “Eterno ritorno delle stesse cose”

A Gela succede quello che succedeva ordinariamente negli anni ’70 del secolo scorso, quando l’Anic – allora il gruppo petrolchimico si chiamava così – riversava indisturbato in mare le sostanze inquinanti. Arrivando da Vittoria, il tanfo del petrolio e dei suoi derivati si cominciava ad avvertire una ventina di chilometri prima di giungere alle mura di Timoleonte. Da quelle parti, sette-otto giorni su dieci soffia il vento di ponente. E sette otto volte su dieci, arrivando a Gela da Vittoria, l’odore nauseabondo si avvertiva venti chilometri prima: all’inizio lieve, man mano chi ci si avvicinava a Gela sempre più intenso, sempre più insopportabile…

Chi si è recato a mare a Gela, nei primi anni ’70, dovrebbe ricordare le acque torbide. Quando il vento era lieve le onde facevano fatica a produrre la schiuma. Immergersi in quelle acque era un ‘piacere’: se nell’aria l’odore nauseabondo non ti lasciava mai, in mare, tra le onde senza schiuma, risultava ancora più insopportabile.

Che dire, poi, del cielo di Gela di quegli anni? Spesso era opaco, anche se a pochi chilometri di distanza splendeva il sole. Ancora nei primi anni ’80 andava di moda una frase che sintetizzava Gela e la sua disastrosa avventura industriale: “Mari senz’acqua, cielu senza suli…”.

Non ci voleva molto a non inquinare il mare e l’aria. Eppure, quel poco che ci voleva restava un “Senza”. Sì, negli anni ’70 Gela era, senza dubbio, un ‘pezzo’ di quella Italia descritta in modo magistrale da Alberto Arbasino in un saggio che allora fece epoca: Un Paese senza: “Un Paese senza memoria. Un Paese senza storia. Un Paese senza passato”. Perché nella Sicilia di quegli anni – e anche nella Sicilia di oggi – non c’è città che si può paragonare a Gela in fatto di perdita della memoria, di eliminazione della storia, di rimozione del passato.

Una città che avrebbe potuto puntare sulla cultura è stata massacrata dal mito dell’industrializzazione. Ma se negli anni ’50, ’60 e, per certi versi, anche negli anni ’70 questo poteva essere giustificato, già ai tempi di Piersanti Mattarella presidente della Regione – siamo alla fine degli anni ’70 – Gela città industriale non aveva più motivo di esistere.

Dagli anni ’50 ad oggi Gela, da città greca, si è trasformata in una tragedia greca senza fine. Perché al lento e inesorabile tramonto del sogno industriale si è sommata una tremenda questione sociale. Della quale l’abusivismo edilizio è solo una delle testimonianze.

Abbiamo detto che, già nei primi anni ’70, ci sarebbe voluto poco per evitare l’inquinamento dell’aria e del mare. Ma sarebbero passati anni prima di ridurre l’inquinamento. Del resto, chi ha gestito questo ‘mostro’ petrolchimico non ha mai pagato i costi sociali. I costi dell’inquinamento li hanno sempre pagati la Regione siciliana e i siciliani. Segnatamente, gli abitanti di Gela.

Mentre le imposte questo gruppo, alla faccia dell’articolo 37 dello Statuto autonomistico siciliano, li ha sempre pagate ad altre Regioni italiane. Alla Sicilia l’Eni ha lasciato l’inquinamento, i malati, le teratologie e i morti. Gli utili sono stati investiti chissà dove. 

Il bello è che, ancora oggi, il Governo regionale di Rosario Crocetta – peraltro già scialbo Sindaco di Gela – invece di pretendere l’applicazione dell’articolo 37 dello Statuto e l’applicazione dell’articolo 38 per riparare i danni che l’Eni ha provocato alla Sicilia, parla, come ha fatto qualche giorno fa, di quel risanamento che in questa città è sempre stato una presa in giro.

Tutto questo nel corso di una tragicomica Giunta regionale convocata proprio a Gela dal presidente a qualche giorno dalle elezioni comunali che riguardano mezza Sicilia. Forse nemmeno la vecchia Dc sarebbe arrivata a tanto.

Ma, come si dice in quest casi, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Così, per ironia della sorte, il giorno dopo l’annuncio della promessa di  ‘risanamento’ è arrivato l’inquinamento: non la promessa d’inquinamento con la promessa del ‘risanamento’: ma l’inquinamento vero, con il petrolio in mezzo al mare…

Ne hanno combinate di tutti i colori, a Gela, gli eredi, in verità quasi sempre spurei, di Enrico Mattei, l’inventore dell’Eni. Hanno inquinato a man bassa un territorio intero. E nessuno gli ha mai detto nulla. Mai.

Quando l’avventura inizia, per non mescolarsi alla vecchi città, l’Eni realizza il villaggio della “Macchitella”: una specie di “Milano 2” ante litteram. Abitazioni confortevoli. Strade larghe e illuminate. E tanto, tanto verde. Praticamente bellissimo.

Allora convivevano due città. Da una parte la città vecchia che veniva presa d’assalto da migliaia di siciliani che si riversavano a Gela dai centri vicini – soprattutto dell’interno della Sicilia – con la speranza di trovare lavoro allo stabilimento petrolchimico o nell’indotto (il risultato è stato un abusivismo edilizio che è ancora vivo e vegeto e il contestuale abbandono delle aree interne dell’Isola). Dall’altra parte il villaggio della “Macchitella” dove vivevano i dipendenti dell’Anic. Due città diverse, negli anni ’70. Legate comunque da un denominatore comune: dall’inquinamento.

E oggi? L’inquinamento c’è ancora. Tanto inquinamento. Tenuto ben nascosto. Tollerato dagli amministratori pubblici che, lungi dal tutelare la salute della gente, come vi abbiamo raccontato qui, hanno badato a costruire le proprie carriere politiche.

Che dire, poi, dei rilievi epidemiologici zero? In questo la Sicilia ha battuto tutti i record: ha avuto, a partire dai primi anni ’80, un assessorato al Territorio e Ambiente che ha sempre autorizzato tutto. E un Osservatorio epidemiologico che, da Gela all’area industriale di Siracusa, da Milazzo alla Valle del Mela, fino alle antenne militari di Niscemi piazzate lì nel 1992 (quelle, per intendersi, che dovrebbero essere sostituite dal Muos) non ha mai osservato nulla.

Il petrolio che oggi è finito nel mare di Gela non è una novità: semmai è la teoria dell’ “Eterno ritorno delle stesse cose” applicato a una città che si dissolve come si è ormai dissolto il mito dell’industrializzazione.

Petrolio nel mare di Gela
Gela come Taranto? No, peggio e non da ora…


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A gela succede quello che succedeva ordinariamente negli anni ’70 del secolo scorso, quando l’anic - allora il gruppo petrolchimico si chiamava così - riversava indisturbato in mare le sostanze inquinanti. Arrivando da vittoria, il tanfo del petrolio e dei suoi derivati si cominciava ad avvertire una ventina di chilometri prima di giungere alle mura di timoleonte. Da quelle parti, sette-otto giorni su dieci soffia il vento di ponente. E sette otto volte su dieci, arrivando a gela da vittoria, l’odore nauseabondo si avvertiva venti chilometri prima: all’inizio lieve, man mano chi ci si avvicinava a gela sempre più intenso, sempre più insopportabile. . .

A gela succede quello che succedeva ordinariamente negli anni ’70 del secolo scorso, quando l’anic - allora il gruppo petrolchimico si chiamava così - riversava indisturbato in mare le sostanze inquinanti. Arrivando da vittoria, il tanfo del petrolio e dei suoi derivati si cominciava ad avvertire una ventina di chilometri prima di giungere alle mura di timoleonte. Da quelle parti, sette-otto giorni su dieci soffia il vento di ponente. E sette otto volte su dieci, arrivando a gela da vittoria, l’odore nauseabondo si avvertiva venti chilometri prima: all’inizio lieve, man mano chi ci si avvicinava a gela sempre più intenso, sempre più insopportabile. . .

A gela succede quello che succedeva ordinariamente negli anni ’70 del secolo scorso, quando l’anic - allora il gruppo petrolchimico si chiamava così - riversava indisturbato in mare le sostanze inquinanti. Arrivando da vittoria, il tanfo del petrolio e dei suoi derivati si cominciava ad avvertire una ventina di chilometri prima di giungere alle mura di timoleonte. Da quelle parti, sette-otto giorni su dieci soffia il vento di ponente. E sette otto volte su dieci, arrivando a gela da vittoria, l’odore nauseabondo si avvertiva venti chilometri prima: all’inizio lieve, man mano chi ci si avvicinava a gela sempre più intenso, sempre più insopportabile. . .

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