«Non hai capito che i carabinieri non lo vogliono prendere?», gli avrebbe rivelato l'ex poliziotto ora indagato per la strage di Capaci. Sullo sfondo di colloqui investigativi e uscite dal carcere mai registrate nei fascicoli. «Tenersi dentro certe cose è un fardello»
Il pentito Riggio, il suo ruolo e quel pizzino di Provenzano «Dovevo cercare latitanti, ma lo Zio andava lasciato stare»
«Tu non devi fare il mio nome». Bernardo Provenzano è categorico. Pietro Riggio, ex guardia penitenziaria di Resuttano con un passato tra le fila di Cosa nostra, non è autorizzato a parlare del latitante numero uno. È l’estate del 2002, e quello che oggi è un collaboratore di giustizia che parla ormai coi magistrati da undici anni non fa che inviargli lettere e missive. Il padrino lo asseconda, gli risponde anche, ma in calce in un pizzino ecco quella frase. Che il pentito, però, non comprende subito. Pensa all’inizio di dover solo evitare di gestire questioni e affari tirando per forza in ballo lui, zu Binnu. A indurlo a vederla così, del resto, è soprattutto quella «pseudo associazione» che dal ’98 cerca di fagocitarlo dentro. Comincia tutto dopo il suo arresto col blitz Grande Oriente e col suo ingresso nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Qualche cella più avanti alla sua c’è un ex poliziotto, di cui ha parlato un anno fa ai magistrati di Caltanissetta che ora lo indagano per la strage di Capaci.
«Io dovevo dare un contributo per quanto riguardava la ricerca dei latitanti», dice Riggio. È questo che quell’ex poliziotto e i colleghi detenuti nella stessa cella gli dicono all’inizio. Lui è perplesso, ha molti dubbi, la situazione gli pare subito ambigua e non sa come si svilupperà. Nel dubbio, però, qualche nome lo fa davvero: «Feci quello di Carmelo Barbieri, che era mio cugino diretto, oggi collaboratore anche lui. Quello di Giancarlo Giugno di Niscemi, nonché di Domenico Vaccaro». È il suo esordio, vuole sondare il terreno con quegli sconosciuti diventati di colpo suoi amici tra le mura del carcere. «Mi fu proposto che al momento in cui sarei stato scarcerato, anzi mi dissero subito mandato agli arresti domiciliari, mi sarei dovuto adoperare affinché portassi dei risultati in tal senso e avrei ricevuto l’appoggio da parte di queste persone che erano state con me all’interno del carcere». Insomma, si tratta di ex poliziotti/ex detenuti che cercano di riabilitare i propri nomi sfruttando gli agganci e le conoscenze criminali di Riggio per mettere dentro qualche boss che si nasconde?
È una delle ipotesi del collaboratore nisseno. Che non ci mette molto, però, a cambiare radicalmente idea. «Se non c’ero io tu eri un uomo morto – gli avrebbe detto l’ex poliziotto, dopo la lettera inviata da Provenzano -. Io ti ho salvato, perché tu non hai capito che i carabinieri non è che lo vogliono prendere. I carabinieri vogliono acquisire le notizie che ognuno… che i referenti hanno, per non farlo prendere, non per prenderlo. Lo Zio ti ha mandato una risposta, l’hai capita? Ti ha detto che non devi più parlare di lui, come te lo deve fare capire?». Di fronte a questo discorso Riggio si ammutolisce, si paralizza, tergiversa e mugugna una risposta, ma quel discorso lo ha turbato. «Io sono rimasto veramente nudo dinanzi a queste cose», racconta ai magistrati. Ma l’ex poliziotto, nel racconto del pentito, continua: «C’è il nuovo centro Dia a Palermo, che è il colonnello Ferrazzano, vacci ogni tanto – gli consiglia -, però parla di tutto e non parlare di niente». In sostanza, l’idea della pseudo associazione che tenta di assoldare Riggio è quella di fare in modo che lui continui a mantenere i rapporti, ma senza tirare in ballo il padrino latitante, «le altre cose se le sai digliele, ma Provenzano lascialo stare, non lo toccare».
Insomma, non è esattamente un’organizzazione che cerca di carpire notizie e informazioni di quel genere per catturare pericolosi boss nascosti e così riabilitarsi, tutt’altro. E il dubbio che non fosse così Riggio ce l’ha anche prima di quel pizzino di zu Binnu e del discorso con l’ex poliziotto. Esattamente tre anni prima, il 10 luglio ’99. Quel giorno, mentre è ancora in detenuto a Santa Maria Capua Vetere, viene prelevato e portato negli uffici della Dia di Roma: «Già lì mi metto in allarme, perché mi vengono a prendere delle persone che sicuramente…. Chi mi ha perquisito addirittura mi ha perquisito con le mani messe in testa, come facevano i tedeschi una volta – racconta ai pm -. Poi mi hanno messo in una Croma bianca blindata e con una manetta mi hanno legato al bracciolo dello sportello, senza dirmi niente». Di lì a poco avrebbe incontrato per la prima volta il colonnello dei carabinieri Angelo Pellegrini e con lui Antonio Miceli, che si presenta come zio Toni, uno che a suo dire farebbe parte della pseudo associazione. Quest’ultimo «era il garante di questo accordo che si stava preparando, che si stava cercando di fare partire. Quella era, diciamo, la garanzia della parte mia, non erano carabinieri che io non conoscevo. Lì sono stati affrontati tutti i discorsi più disparati, alla fine siamo andati a finire su Provenzano».
«”Noi vogliamo fare un bel risultato con te”, e mi fu introdotto il discorso di dargli una mano per quanto riguardava la cattura di Provenzano e, quindi, le persone che potevo indicare io, dove mi sarei potuto rendere disponibile, quello che avrei potuto fare al momento in cui avrei messo piede fuori dal carcere – racconta oggi Riggio di quell’incontro -. E quindi nell’effettività se ero in grado di fare, diciamo, da tramite, da agente di copertura, da infiltrato, non lo so cosa intendeva». Di quell’ambiguo incontro, tuttavia, Riggio scopre tempo dopo che non ne esiste traccia. «Successivamente ho chiesto di visionare il mio fascicolo personale, la matricola di Santa Maria Capua Vetere, di questo foglio non ho trovato nessuna traccia – racconta -, cioè di questa uscita, nessuna traccia, niente». Non c’è un avviso a un magistrato, un avviso di comparizione, nulla davvero. «Per giustificare la mia presenza lì nel pomeriggio feci un interrogatorio», propedeutico insomma a quell’incontro anonimo avuto la stessa mattina. Alla fine del quale, il giudice Gabriele Chelazzi gli avrebbe chiesto, in disparte e a bassa voce, se stesse bene: «Se ha problemi, parli con la procura di Firenze. Stia attento, stia attento», il monito finale del magistrato. «A me ‘sta cosa….lo dico, mi viene ancora la pelle d’oca – dice oggi Riggio ripensandoci -. Sta cosa mi toccò, mi fece riflettere molto, mi fece capire. Dico: “ma forse sta succedendo una cosa più grande di me, na cosa più grande di quello che io posso pensare?”».
E, forse, in effetti è così. Un altro input lo riceve quando è ormai fuori dal carcere e rincontra l’ex poliziotto. «È il momento che ho bisogno di te – gli avrebbe detto -. La nostra organizzazione il compito che ha è quello di fare favori alla politica quando gli vengono richiesti, secondo le modalità». Subito dopo ecco che l’ex poliziotto tira fuori il progetto di uccidere il giudice Guarnotta, lasciando attonito Riggio. Le stranezze però non si fermano qui. Quando, infatti, chiede di consultare quel famoso fascicolo che lo riguarda, per scoprire che dell’uscita del 10 luglio non c’è traccia, scopre anche che «spuntano solo due colloqui investigativi». Solo che lui dice di averne fatti dodici. Che fine hanno fatto tutti gli altri? Perché, anche di questo, non ci sarebbe alcuna traccia? «Siamo fra il 2003 e il 2008. Risultano solo quelli con il tenente del Ros Palmisano presente, gli altri….Ros dei carabinieri venivano a monitorarmi secondo le loro idee su cose che io avrei potuto dire o avrei potuto conoscere».
Ma perché rivelazioni, dubbi e ambiguità di questo peso tirati fuori solo nel 2018, dopo anni dall’inizio della sua collaborazione coi magistrati? «Secondo me oggi se ne può parlare, è la sensazione che c’ho io. I tempi sono maturi per poterne parlare – dice -. In quei periodi penso che il rischio era quello della vita». Ma perché i tempi sarebbero migliori oggi? «Lo deduco da tante dinamiche: sociali, politiche. Lo deduco che è come se questo potere occulto sia traballato, sia venuto meno e quindi è un momento che la verità deve venire per forza a galla. Il fatto principale – spiega ancora – è stato la sentenza di Palermo (sentenza di primo grado processo trattativa Stato-mafia), che era impensabile. Io quando ho sentito la sentenza non credevo…A un certo punto è un cerchio che si deve chiudere. Mi sento più pronto per poterlo dire. Se mi sento protetto? Questo non lo posso dire perché purtroppo conosco l’ambiente. Per quel poco di tempo in cui ho avuto a che fare con quell’ambiente so che è pericolosissimo per tutti, se si decide di dire una cosa. Però ritengo che i tempi sono giusti e poi voglio chiudere proprio io, perché è come una cosa che mi porto dentro, che devo chiudere». E parla anche di un travaglio personale: «È un bisogno interiore, un qualcosa che non ti puoi tenere dentro e portartelo come un fardello». E quindi Riggio parla, e sembra avere molto da raccontare ancora.