Un ruolo, quello del montatore, lontano dalle luci della ribalta, ma determinante per la forma definitiva di unopera cinematografica. Step1 intervista Roberto Perpignani che al Taormina Film Fest ha tenuto una lezione su "Il montaggio del futuro"
Il montatore, un intellettuale e artigiano insieme
In genere si dice che il montatore sia colui che secondo un preciso schema di fabbricazione realizza un unico complesso funzionante. Definizione asettica che poco si adatta alla cinematografia dove lo specialista – che nella costruzione del film seleziona le inquadrature e il loro inserimento in base al volere del regista e alla sequenza più logica da seguire – sa che tutto è soggetto al divenire e all’interpretazione, perché è arte. E l’arte racchiude emozioni ma anche illogiche sorprese.
Lo sa bene Roberto Perpignani – vincitore di molti premi per miglior montatore come il David di Donatello per il film dei fratelli Taviani “La notte di San Lorenzo” – che afferma “per non rimpiangere il passato bisogna provocare il futuro” ma per fare ciò e quindi non fermare l’evoluzione “le cose devono essere interpretabili e contestabili”.
Perpignani, sessantottenne – ma non li dimostra – figlio d’arte (di una sarta di cinema e di un fotografo), ci racconta che, nonostante sia cresciuto tra un set e l’altro, da ragazzo non ne era coinvolto più di tanto, perché fu la pittura inizialmente a catturare la sua attenzione. A vent’anni, però, quando incontrò Orson Welles, i suoi interessi si mescolarono tra pittura e cinema: la collaborazione con uno dei registi più poliedrici che sia mai esistito, che tuttora rappresenta il livello massimo di declinazione del ‘possibile cinematografico’, forgiò e rivoluzionò la sua ossatura artistica. Il cinema di Welles gli apparve come la chiave migliore per accedere ad un universo parallelo di un altro ‘possibile’: quello delle differenti forme che il cinema può assumere attraverso le diverse tecnologie dell’immagine, fatte di labirinti, rinvii e giochi di specchi.
L’esperienza è importante che venga tramandata ai giovani, per una sorta di continuità, come Welles fece con lei, lei fa con i tanti ragazzi che seguono i suoi corsi al Centro Sperimentale e nei workshop. Negli anni è cambiato il suo metodo di tramandare questa esperienza?
‹‹Qualunque sia il momento in cui ci si trova ad operare, l’atto del trasmettere o tramandare non cambia e non può essere solo un trasferire le esperienze attraverso formule, ma piuttosto attraverso l’esempio dell’impegno che ogni attività comunicativa e culturale comporta. Da ogni mezzo, più o meno nuovo, ci arrivano delle sollecitazioni a renderci responsabili di elaborazioni aggiornate, questo senza trascurare il nostro sapere tradizionale››.
Sua allieva è anche Ilaria Fraioli (la montatrice di tutti i film di Alina Marazzi), che abbiamo avuto il piacere di intervistare qualche tempo fa. Ci disse di aver scelto questo mestiere ancora sedicenne, mentre frequentava il liceo scientifico, partecipando ad un workshop tenuto da lei e da altri professionisti che la fecero appassionare a questa frase: ‹‹Quello del montatore è un ruolo a metà strada, tra l’avere un approccio intellettuale e un approccio artigianale, che deve saper conciliare l’aspetto narrativo con quello tecnico-formale››. Potrebbe spiegarci questo concetto?
‹‹Lo semplificherò, ma è ben più complesso. Il montaggio è uno strumento cosiddetto tecnico ma che implica la propria capacità elaborativa. Lavora sul linguaggio in quanto esplicitazione di un fatto intimo e profondo che è l’espressività, e oggettivamente diventa la possibilità di dare forma a quello che un individuo vuole esprimere.. E’ chiaro che bisogna conoscere quel mezzo come un pittore, il quale non potrebbe imparare a dipingere se non imparerà a usare il colore, il pennello, a stabilire come è fatta una tela… La pellicola per me è stata la forma di applicazione per tantissimi anni ed è diventata effettivamente una sorta di estensione di quella che era la mia identificazione con quello che cercavo››.
Quindi la pellicola non rappresentava un ostacolo…
‹‹No, l’estensione la si raggiungeva lo stesso, ma il mezzo era limitante. Successivamente la pellicola ha cominciato a non apparire più, ma l’immagine era sempre lì. Sono subentrate le possibilità elaborative, c’era il chiedersi come andare oltre… Tanto è vero che io collaboravo con un mio carissimo amico (che faceva immagini digitali e elaborazioni diverse) perché mi permetteva di investigare linguisticamente quella che era la mia esperienza. Così le multi-visioni sono diventate per me l’ipotesi di fare montaggio nello spazio, non solo su uno schermo. Il digitale non era più uno strumento, ma un’opportunità››.
… Ma c’era chi non l’amava.
‹‹Sì è servito del tempo per accettarlo. Oggi il montaggio è il connotato di una narrazione, fatta di sospensione e di ripresa da un “in” e un “out di un’immagine che poi si va a coordinare con altre ma su uno schermo unico, noi sappiamo che possiamo uscire dallo schermo unico per andare verso il concetto di narrazione nello spazio. A questo punto è chiaro che le sedie non saranno più rivolte solo verso lo schermo, ma saranno disposte in modo da sentire non solo ciò che abbiamo davanti ma anche ciò che abbiamo dietro. E la ricerca è lì che chiede di darti da fare. Quando sono approdato al cinema erano gli anni della “Nouvelle Vague”, e così giovane non mi ero accorto di quanto fosse ‘connotante’ questo modo di fare ricerca››.
Lei è un appartenente al cinema creativo, d’autore, di ricerca, che si rifà un po’ all’ideologia della “Nouvelle Vague”, un cinema che in due parole si direbbe “intellettuale e artigianale”, in cui il creatore diventa quasi un tutt’uno con la propria opera creativa. Secondo lei, oggi vengono attribuiti significati giusti ai termini ‘opera cinematografica’ e ‘prodotto filmico’?
‹‹La parola “prodotto” è connotata ad una sua funzione commerciale ma è anche qualcosa che si produce per una fruizione. Il prodotto in sé non ha un connotato negativo ma è il connotato che gli si è applicato che diventa limitativo. Ciò che è importante è l’opera, anche se come parola in sé è un po’ presuntuosa. Allora…vediamo in che modo svestire di orpelli formali tutte le cose per renderle più condivisibili. Perché le opere ridiventino ‘l’interpretazione del reale’, faremmo bene ad affermare che il prodotto cinematografico non deve essere misurato solo in base agli incassi, ma in base a quanto ha saputo sollecitare negli spettatori una crescita emotiva››.
In tutto questo discorso l’Italia come si ìconnota’?
‹‹L’Italia fa fatica a connotarsi. Ma non è un problema soltanto del nostro Paese. Il linguaggio cinematografico mondiale non si sta evolvendo››.
Durante la lezione ha detto che il linguaggio cinematografico si è fermato ad una trentina di anni fa, perché il cinema, se lo ha rielaborato, negli anni, lo ha fatto sfruttando forme che hanno una propria ‹‹matrice in tempi passati››. A mancare è il coraggio nelle nuove generazioni o concorrono altri fattori?
‹‹C’è un’evoluzione che stenta a lanciarsi, perché effettivamente è difficile uscire da una fase ed entrare in un’altra. E’ storico il problema: le evoluzioni hanno sempre un periodo di stallo, poi ad un certo punto arriva quella fascia generazionale più determinata che mette a fuoco alcune cose e comincia ad aprire quella breccia che farà passare tutti gli altri››.
L’hanno definita ‘un artista, un artigiano, un didatta, un critico e uno scrittore al servizio della propria materia: il montaggio cinematografico’. Ma esiste un montatore ‘individualista’ avulso dal resto della squadra che crea un film?
‹‹La parola “individualista” mi sembra poco applicabile al concetto di montatore che lavora sempre per un progetto che già è stato pre-determinato o comunque impostato. Casomai è un interprete. Può capitare che uno lavori da solo perché magari la sua concentrazione richiede un momento di assoluto isolamento, ma tutto questo deve poter essere gestito insieme agli altri. E’ più individualista un cosiddetto autore che pensa alla sua espressività che deve prevalere, ma, diciamolo, ne abbiamo un po’ piene le scatole dei registi che pensano di essere i protagonisti. Casomai sono le persone messe insieme “il protagonista”. Purtroppo si sente in giro la dispersione e la distorsione del senso di comunità››.
Ha anche parlato di “tempo” e di “emozione”, come elementi compenetranti, ma quando è possibile dire che una scena è “azzeccata” al di là del fatto che convince emotivamente?
‹‹Lo senti da quello che ti produce, e mica è poco: un’emozione è sempre un qualcosa che accade dentro se stessi di rivelatore. Se è accaduto vuol dire che l’obiettivo è stato raggiunto o che si è prodotto qualcosa che è andato oltre la pura illustrazione in qualche modo riassumibile con quelli che erano i progetti: c’è stato qualcosa che ha permesso di dire “ho avuto un’esperienza” e un’esperienza non la si può programmare››.
Curiosità pratiche. Di solito quanto tempo occorre per ultimare un lavoro di montaggio e quante volte va rivisto? Quanto influisce il genere (documentario, fiction…) nell’uso del tempo?
‹‹Dipende, a volte una sequenza la sospendi e poi ci ritorni dopo un po’ di tempo perché ci devi pensare su. A volte ti fermi, rivedi fino a quel punto e poi riprendi subito. Poi ogni genere di racconto ha modi specifici per essere raccontato anche se fondamentalmente dipende dalla storia che stai raccontando››.
Si dice spesso come battuta che il montatore è il primo spettatore.
‹‹Non è una sciocchezza però non è del tutto vera perché il montatore è qualcuno che analizza, osserva, ma rende funzionale tutto ciò che si andrà a determinare, più che come primo spettatore come colui che avrà la capacità di leggere il progetto e dunque i materiali in modo non vincolato alle aspettative che si erano create inizialmente. Mentre il regista continuerà ad inseguire quello che aveva pensato nel tentativo di realizzare una sorta di “pregresso”, un montatore parte dai materiali alla ricerca di una coerenza interna, cercando anche di incontrarsi con le intenzioni, ma sostanzialmente mettendole su un tavolo d’analisi. Poi sarà la sintesi che farà raccogliere dei risultati››.
Il suo lavoro è ben lontano dall’apparire in pubblico, che emozioni provoca avere davanti una platea di studenti, di pubblico con cui interloquire?
‹‹Mi produce ancora una sensazione forte e autentica trovarmi davanti a tante persone, giovani specialmente, che si aspettano delle verità fondamentali per loro. Ma è innegabile che la prima volta che mi è accaduto di trovarmi davanti a circa quattrocento persone, nell’ Università de L’Aquila, dove si svolgeva una parte importante del progetto “Città in Cinema”, l’emozione è stata grandissima, al limite dell’inibizione. Poi la mia determinazione mi ha fatto superare le incertezze, offrendomi infine un riscontro molto appagante quando un giovane si è alzato dicendo: “Ti devo ringraziare perché mi hai dato la voglia di andare al cinema”››.
A proposito di punti di riferimento, nella sua vita tre figure sono state determinanti: Welles, sua madre e suo padre (anche loro artisti). Guardandosi indietro quali caratteristiche professionali (e umane) pensa di aver ereditato da ognuno di loro?
‹‹Ovviamente sono imprescindibili i modelli e gli esempi che ci vengono da coloro che ci hanno formato. Primi tra tutti i genitori. Mio padre, che è morto quando avevo poco più di cinque anni, sembra che avesse lasciato a mia madre una consegna assolutamente categorica: avrei dovuto fare degli studi artistici. E così è stato. Il resto è venuto da solo, Welles compreso, che è entrato nella mia esperienza formativa come un ciclone sconvolgente››.
Parafrasando le parole di Welles: un’opera cinematografica è come creta da modellare, ma bisogna stare attenti a farlo. Sennò la ‘nostra’ statua non avrà lunga vita?
‹‹Sì, esatto››.
Ma lui diceva anche “se il nostro amato cinema smettesse di essere la grande ossessione contemporanea allora la creta per le nostre statue resterebbe in mano ai distributori”. Questa affermazione non le sembra che vada un po’ contro all’essenza stessa di cui si dovrebbe nutrire il cinema?
‹‹La distribuzione fa parte in modo intrinseco del processo comunicativo, quindi collettivo. L’importante è lavorare perché non ci sia contraddizione tra quello che facciamo e il senso che le cose assumeranno lungo il percorso che le porta al risultato. Un qualsiasi tema con il suo linguaggio, che ne è ogni volta la declinazione originale, che condivideremo con fruitori e interpreti, è una proposta da offrire alla elaborazione››.